Pedro Gadanho: la curatela è la nuova critica

L'architetto portoghese, neo curatore di architettura al MoMA, racconta a Domus i suoi programmi, tra cui una mostra sull'atteggiamento politico in architettura.

Nominando Pedro Gadanho curatore del dipartimento di Architettura contemporanea e Design, il MoMA ha fatto un passo coraggioso verso un'architettura che va oltre il boom dell'edilizia. Gadanho — architetto, curatore e critico — è una figura di primo piano di una nuova generazione, meno interessata a costruire il più possibile e più attenta alla sperimentazione intellettuale e professionale. "Una mostra è un'operazione audiovisiva. Siamo in grado, rispetto alla critica, di usare materiali cui il grande pubblico può reagire più efficacemente", afferma Gadanho. In settembre, la sua prima antologica della collezione si tradurrà in una mostra sull'atteggiamento politico in architettura. "Dobbiamo analizzare come gli architetti siano ancora in grado di mettere in luce e presentare una posizione politica in un momento in cui la professione in generale sembra dominata dall'economia", aggiunge. L'obiettivo? "Mettere in evidenza come gli architetti non si limitino a una rappresentazione del potere, ma abbiano invece la possibilità di elaborare commenti critici sulla realtà".

Kazys Varnelis: Una delle tue affermazioni più commentate è che "la curatela è la nuova critica". Qual è, da curatore, la tua posizione rispetto a questo concetto?
Pedro Gadanho: È una frase che racchiude parecchi concetti critici. Uno è la dismissione della critica stessa. Oggi passiamo il tempo a leggere su Internet e la critica si trova di fronte a una cultura visiva attraverso la quale ha dei problemi a far passare i propri messaggi.
La curatela invece usa gli stessi strumenti di comunicazione di Internet e della televisione. Una mostra è un'operazione audiovisiva. Siamo in grado, rispetto alla critica, di usare materiali cui il grande pubblico può reagire più efficacemente.
La critica consiste nel mettere alla portata di un pubblico più vasto la funzione critica dell'architettura, il modo in cui gli architetti pensano il mondo, e contemporaneamente nell'apportare idee critiche alla disciplina. La curatela, come prassi, può essere stratificata in modo da includere entrambe le funzioni, comunicando la pratica dell'architettura a livello superficiale e contemporaneamente fornendo livelli più profondi di contenuto critico attraverso i testi che produce, sia nello spazio espositivo sia in catalogo. Sono sensibile al concetto di "opera aperta", con il quale Umberto Eco suggerisce che in un'unica opera ci si può rivolgere a pubblici differenti dotati di retroterra culturali differenti, consentendo loro di rispondere ciascuno a suo modo ai contenuti. Al MoMA il pubblico per la maggior parte non è quello dell'architettura, ma occorre comunque rimanere aderenti alla disciplina. E quindi ci sono due livelli: uno riferito alla disciplina e uno orientato alla funzione dell'architettura nella società.
In apertura: Pedro Gadanho fotografato nel suo ufficio al MoMA. Photo Kazys Varnelis. Qui sopra: <i>Foreclosed</i>. Vista della mostra
In apertura: Pedro Gadanho fotografato nel suo ufficio al MoMA. Photo Kazys Varnelis. Qui sopra: Foreclosed. Vista della mostra
Parallelamente all'ossessione del costruire connessa con il boom, la curatela d'architettura ha finito con l'identificarsi con la presentazione di edifici o di elemento di edificio. Ma la nuova generazione di architetti e di curatori appare interessata a idee più sperimentali, per esempio all'architettura narrativa. Qual è secondo te il ruolo degli edifici nella curatela?
Nelle mie prime esperienze curatoriali mi dedicavo più al processo di realizzazione che agli edifici, e ancor oggi, secondo me, il processo è più interessante del prodotto finito. Analizzando il processo si analizzano gli atteggiamenti, si analizza la cultura, si analizzano i temi stessi che svelano la professione dell'architetto così com'è oggi. Perciò mi ha sempre interessato come nasce il processo, che cosa lo identifica, i suoi problemi, i suoi effetti sulla città. Concentrarsi sul processo invece che sul prodotto finale significa essere in grado di cogliere tutti gli aspetti nuovi che riflettono modi differenti di intendere l'architettura. Se nell'arte contemporanea gli artisti non si identificano più con la tecnica che usano, ma navigano agilmente attraverso vari linguaggi, allora forse anche in architettura si sta arrivando a riconoscere il fatto che si possono adottare prospettive differenti (non solo la tradizionale struttura costruita) per dare un contributo alla società attraverso la riflessione critica, discutendo o ricostruendo la società. Come per gli artisti contemporanei i risultati possono essere presentati in forma di video oppure di disegno, usati in modo metaforico. Ciò che mi interessa di più è il risultato dei vari processi, senza rimanere vincolati all'idea della costruzione. Mi preme che l'architettura diventi più un settore della cultura che una professione di servizio. Avverto una separazione tra una parte della professione che si dedica al servizio tecnico e una parte che agisce in modi più simili a ciò che è recentemente accaduto nell'arte. Il che non vuol dire che l'architettura sia sullo stesso piano dell'arte oppure che l'architettura sia un fatto d'arte. È un vecchio dibattito e conduce a vicoli ciechi decisamente privi d'interesse.
<i>Foreclosed</i>. Vista della mostra
Foreclosed. Vista della mostra
Come hai tradotto queste idee nella tua collaborazione con il MoMA?
In settembre la mia prima antologica della collezione prenderà forma in una mostra sull'atteggiamento politico in architettura. Credo che dia forma ad alcune delle domande cruciali cui mi riferivo. Dobbiamo analizzare come gli architetti siano ancora in grado di mettere in luce e presentare una posizione politica in un momento in cui la professione in generale sembra dominata dall'economia. Osservando il patrimonio della collezione e con l'aggiunta di alcune nuove acquisizioni di opere di una generazione più giovane spero di mettere in evidenza come gli architetti non si limitino a una rappresentazione del potere, ma abbiano invece la possibilità di elaborare commenti critici sulla realtà. Pensiamo che negli anni Sessanta c'era l'architettura radicale, negli anni Settanta c'erano architetti come Tschumi e Koolhaas, che usavano la narrazione per dare corpo alla distopia, e che, venendo all'oggi, ci sono tanti giovani che cercano di impegnarsi ancora nelle questioni sociali, nelle questioni della collettività e nella capacità di dare senso all'architettura in condizioni economiche di grande ristrettezza. Secondo me si tratta di altrettante scelte politiche. Voglio mostrare come questo rapporto tra architettura e politica cambi nel tempo e rimanga costantemente una situazione aperta. Per il solo fatto di sostenere una posizione, anche se si tratta di rifiutare l'intervento dell'architettura, come hanno fatto Lacaton & Vassal a un certo momento, si rimane assolutamente politici.
Dobbiamo analizzare come gli architetti siano ancora in grado di mettere in luce e presentare una posizione politica in un momento in cui la professione in generale sembra dominata dall'economia.
Forse la posizione politica della generazione attuale nasce dal disgusto per il boom edilizio, e con la concezione apolitica, o piuttosto neoliberista, dell'architettura che vi è associata.
Sì: dato che la nuova generazione si è formata nel cuore dello star system, pensa di dover reagire a esso, all'architettura come gioco delle firme, sistema di branding per il mondo delle imprese. Questa generazione ha capito che doveva fare qualcos'altro. Ricordo sempre che sentivo dire, da persone come mio padre, estranee alla professione, che la consideravano una professione assolutamente cannibalistica, costantemente autolesionista. Se si gestisce il proprio studio con collaboratori non pagati e sfruttati, questi arriveranno a odiare il sistema oppure finiranno con il replicare il sistema. Il che distrugge continuamente l'architettura dall'interno, perché i professionisti, a quanto pare, sono privi di autostima nei confronti della loro attività. Ma oggi ci sono dei giovani che rifiutano lo star system e tutto il percorso del lavoro per le star, e stanno lavorando invece attraverso canali differenti.
Allora l'architettura delle star è tutta un equivoco?
Non è che l'architettura delle star sia priva di valore. In realtà mi piacerebbe realizzare un percorso espositivo che mostrasse al pubblico come una star diviene tale. L'architettura delle star è una macchina complessa, che corrisponde a una domanda mondiale di grande scala. Vent'anni fa sarebbe stato difficile immaginarlo. La grandezza di questi architetti che sono diventati dei divi sta nell'aver creato una cosa nuova e senza precedenti, realizzando una fantasia di novità senza limiti. Ma questo sistema crea anche l'attesa di una rapida obsolescenza: ogni cosa è più affascinante di quel che c'era prima. A un certo punto, tuttavia, si comprende che il prossimo progetto sarà solo un'altra forma stravagante da aggiungere al catalogo delle forme stravaganti preesistenti. Appena ci si adagia in una formula, anche se la formula è la diversità, e si risponde allo stesso modo in tutto il mondo, si comincia ad annoiarsene. Prima si annoiano i giovani architetti, poi i committenti, e poi è fatta. Il sistema divora se stesso. È il sistema del consumo. Non a caso l'ascesa dello star system è parallela all'ascesa del sistema dei consumi nella società occidentale degli ultimi vent'anni. Negli anni Novanta e nel primo decennio del 2000 abbiamo raggiunto l'apice dei consumi individuali. Se questo sta per finire, allora dovremo trovare altri modi di considerare l'architettura che non la produzione infinita di nuove strutture costruite. Il che, per inciso, non significa nemmeno che si debba assumere un atteggiamento conservatore…
Credo importante che tu sollevi il tema del rapporto del mercato con lo star system. La mostra Foreclosed, attualmente in corso al MoMA, colloca la residenza monofamiliare nell'epicentro della crisi delle abitazioni, ma suggerisce la complicità dell'architettura delle star in quanto immagine pubblica del delirio di espansione. La proliferazione infinita del nuovo è stata una specie di frenesia economica, la promessa che i bei tempi non sarebbero mai finiti. Alla fine ha cozzato contro un muro: il New York Times ha appena pubblicato un articolo sul fatto che gli appartamenti degli edifici progettati dalle archistar non si vendono più tanto facilmente.
Come dicevo, il sistema dei consumi mastica tutto e lo risputa quando scorge il prossimo buon boccone. E quel che è stato masticato non è tanto datato, quanto inutile. In fatto di tendenze architettoniche si deve essere coscienti che esse fanno parte del sistema dei consumi, sempre in cerca di qualcosa di nuovo. In un'istituzione pubblica come il MoMA, ovviamente, c'è il pericolo di cadere in questa trappola. Bisogna essere coscienti dei rischi che si corrono, ma si può sempre trovare il modo di superarne la maggior parte. È soprattutto qui che il messaggio critico è importante. Per esempio negli ultimi dieci-quindici anni gli artisti sono stati in grado di raggiungere un pubblico più vasto grazie al loro atteggiamento critico. In questo senso destabilizzare il sistema dei consumi vigente è fondamentale anche per gli architetti.
Figura centrale del movimento della narrativa d'architettura, già direttore di Beyond, Short Stories on the Post-Contemporary, Pedro Gadanho è stato uno dei promotori del 1° Convegno internazionale di architettura narrativa: Once Upon a Place. È stato docente alla facoltà di Architettura di Oporto e dal 2000 al 2003 condirettore di ExperimentaDesign. È stato curatore di mostre internazionali come Space Invaders per il British Council di Londra, e Pancho Guedes: ein alternativer Modernist per lo Schweizerisches Architekturmuseum di Basilea. È autore di Arquitectura em Público (Dafne, 2011) e tiene un blog su Shrapnel Contemporary.

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