C’è un filo conduttore, ostinato e vitale, che attraversa il lavoro di Joris Laarman, olandese, classe 1979: l’idea che il design non debba limitarsi a rappresentare il proprio tempo, ma a costruire i codici di quello che verrà. È una tensione quasi biologica, un modo di guardare agli oggetti come organismi in evoluzione.
Dal 2004, con il suo lab a Zaandam, mezz’ora dal centro di Amsterdam, un’officina sperimentale a metà tra bottega rinascimentale, start-up high-tech e centro di ricerca, Laarman orchestra un team (parla sempre e solo al plurale) di designer, ingegneri e artigiani che testano materiali, modellano algoritmi e producono forme dove natura, cultura e tecnologia dialogano senza gerarchie.
Esce cum laude da Eindhoven Design Academy nel 2003, e fin da allora le idee sono chiare. “Tendo a guardare il mondo in termini di macro-storia perché tutto diventa più affascinante attraverso questa lente. Sono attratto dai modelli storici tanto quanto dalla fantascienza basata sui fatti. Il presente esiste solo grazie al nostro passato e al futuro che stiamo attivamente plasmando. Dal punto di vista dell’oggetto tutto ciò che creo fa riferimento a concetti storici. Il mio progetto di laurea, risalente a 23 anni fa, Reinventing Functionality (NdR, un radiatore/decorazione pubblicato per la prima volta da Domus nel 2003), è stato una risposta al rifiuto dell'ornamento da parte del modernismo; la Bone Chair, creata l’anno successivo, è essenzialmente un'interpretazione high-tech dell'Art Nouveau: entrambi i progetti non riguardano lo stile, ma una logica nascosta. Le librerie Vortex sono letteralmente un gioco tra ornamento e funzionalità. Le Maker Chair traducono le idee moderniste di auto-fabbricazione (da Rietveld a Enzo Mari) nell'era digitale.”
Sono soddisfatto del mio lavoro quando è pieno di contenuto, come una poesia tridimensionale. Un singolo oggetto che porta con sé molte storie.
Joris Laarman
La collaborazione con Friedman Benda inizia nel 2004, un anno dopo il termine degli studi, e continua fino a oggi, segnando uno snodo cruciale per la crescita internazionale di Laarman: due anni dopo, nel 2006, la Bone Chair, esposta per la prima volta a Design Miami, vince il premio come migliore opera contemporanea. L’iconica galleria newyorkese presenta quindi nel 2010 Joris Laarman Lab, la sua prima personale: il culmine di cinque anni di ricerca e sperimentazione che include anche oltre alla serie Bone anche le serie ai tavoli Cumulus e Starlings, consacrandolo come una delle voci più radicali del design computazionale contemporaneo.
La Bone Chair e la Bone Chaise (la prima già parte della mostra Design and The Elastic Mind al MoMA di New York, a cura di Paola Antonelli, nel 2008), sfruttano un software sviluppato per General Motors che simula la mineralizzazione delle ossa, generando strutture leggere con una logica evolutiva e non decorativa. Un modo per legittimare la bellezza attraverso la performance più che attraverso lo stile. L’intero progetto si fonda su iterazioni digitali rigorose e su un’idea di forma che traduce processi naturali in sculture funzionali: un lavoro da ossessivi dell’indagine e della sperimentazione, dal fascino quasi ipnotico.
Nel frattempo, a New York si prepara un altro e nuovo capitolo dopo il primo incontro tra Joris Laarman e Marc Benda, nel 2004. Nel 2026, infatti la galleria presenterà la prima personale in dodici anni (8 maggio – 13 giugno 2026, 515 W 26th St, New York, NY): un ritorno che coincide con un momento simbolico. Il 2026, infatti, segna anche i vent’anni della Bone Chair. E questa nuova mostra, ancora senza titolo definitivo, svelerà, per la prima volta dopo oltre un decennio, due corpus di lavori completamente nuovi. Se la Bone aveva inaugurato una stagione di logiche evolutive applicate al progetto, questi nuovi lavori sembrano voler spingere quella stessa intuizione un passo ancora più avanti - verso oggetti che non descrivono il futuro, ma lo coltivano.
Se la collezione Bone esplora la leggerezza strutturale, il progetto delle Makerchairs (2014) radicalizza il concetto di modularità. Le sedute, come la Makerchair Hexagon o la Makerchair Diamond, sono composte da decine, o addirittura centinaia di elementi, ciascuno fresato o stampato separatamente, in un mosaico costruttivo che unisce ingegneria di precisione e manualità certosina. Il suo design è come un puzzle tridimensionale: un sistema aperto, replicabile, che prefigura un futuro in cui produzione digitale e artigianato collaborano, anziché competere.
La ricerca di Laarman non si muove però solo nel dominio del calcolo. Negli ultimi anni, infatti, il designer ha rivolto la sua attenzione su ciò che cresce, muta e coesiste, quindi evolve. Le Symbio Benches (2024), strutture in pietra o cemento riciclato pensate per accogliere muschi e licheni, propongono una concezione post-umanista dell’arredo pubblico: non più superfici che resistono alla natura, ma supporti che la invitano a radicarsi, crescere, trasformare lentamente l’oggetto. Un lavoro da costruire insieme.
“Negli ultimi anni, gran parte del nostro lavoro è ruotato intorno all'idea del Simbiocene, un'era speculativa proposta per la prima volta dal filosofo australiano Glenn Albrecht, immaginata come il periodo successivo all'Antropocene, in cui natura, cultura e tecnologia si fondono in una nuova era creativa di simbiosi. Poiché la natura opera attraverso processi evolutivi circolari e iterativi, queste stesse idee permeano naturalmente la nostra pratica”, sottolinea l’autore.
“Le nostre panchine Symbio, ad esempio, fondono la ricerca sui pattern algoritmici altamente grafici del matematico e filosofo britannico Alan Turing con habitat ecologici reali che ospitano briofite e licheni. I licheni, in particolare, possono crescere estremamente lentamente – a volte solo un millimetro all'anno – quindi un'opera può impiegare decenni per ricoprirsi completamente, se mai ci riesca veramente. Ma l'iterazione è presente in ogni opera sperimentale che realizziamo. Spesso è l'unico modo per domare un nuovo processo, una nuova tecnica o un nuovo materiale e trasformarlo in un linguaggio formale coerente o in un nuovo corpus di opere. La natura non è mai permanente, e abbracciare questo concetto è profondamente stimolante.” Laarman e i suoi collaboratori considerano questo progetto un lavoro incentrato su processi lunghi e lenti - processi di crescita, di erosione, di iterazione - trattando l’oggetto come “un organismo stagionale”.
La Ply Loop Chair è un altro tassello fondamentale nel percorso dello studio: una spirale continua in rovere e noce, tenuta insieme da una bio-resina sviluppata con Plantics, resine e materiali termoindurenti al 100% di origine biologica, completamente biodegradabile e riciclabile all’infinito. È un oggetto che sembra provenire da un laboratorio di fisica più che da una falegnameria, eppure nasce dalla logica del materiale stesso. E poi c’è la vertigine digitale dei Voxel Tables (2023): architetture pixelate, costruite voxel dopo voxel, come se l’arredo avesse attraversato un videogioco degli anni ’90 prima di tornare poi al mondo fisico. Il tavolo, in resina e neodimio (elemento chimico, numero atomico 60), è una superficie che oscilla tra ornamento barocco e modellazione computazionale estrema.
“I nostri lavori su Plyloop riflettono sulla storia del compensato, che in definitiva è la storia della colla. Sostituendo gli adesivi cancerogeni a base di urea-formaldeide con una nuova resina di origine biologica biodegradabile in condizioni naturali (appunto, Plantics) e abbinandola alla progettazione computazionale e alla fabbricazione digitale, il compensato è pronto per una nuova era di simbiosi.”
Non so bene come definire Joris Laarman - un progettista, un ricercatore, una mente costruita dentro e per il nostro tempo - così gli chiedo se ha lui una sua definizione del lavoro di designer: “Penso che tutte le persone creative siano essenzialmente autori. Nell'era dell'intelligenza artificiale, gli oggetti creati dall'uomo – opere che comunicano da persona a persona – stanno diventando sempre più preziose per me. L'intelligenza artificiale può generare cose bellissime, ma spesso sono intrinsecamente noiose perché non c'è nessuno dietro che cerchi di comunicare qualcosa a livello emotivo. Io voglio sapere chi ha creato quella specifica cosa e perché quella persona ha voluto farlo così fortemente. Sono soddisfatto del mio lavoro quando è pieno di contenuto, come una poesia tridimensionale. Un singolo oggetto che porta con sé molte storie.”
Faccio parte dell'ultima generazione che ricorda un mondo completamente analogico e sento la responsabilità di portare certe qualità di quel mondo nel futuro.
Joris Laarman
E aggiunge: “Come mente creativa, filtro la realtà attraverso la mia lente e la trasformo in qualcosa che ritengo valga la pena condividere - infatti, Anita (Ndr, Anita Star, partner) e io stiamo sviluppando una sceneggiatura su questo tema da molti anni, nel poco tempo libero che abbiamo. Faccio parte dell'ultima generazione che ricorda un mondo completamente analogico e sento la responsabilità di portare certe qualità di quel mondo nel futuro. Cerco di lavorare con il progresso e con la tradizione in un modo che si crei una particolare tensione. Per abbracciare il futuro senza perdere gli inestimabili tesori del passato. Mi piace fondere forze opposte: analogico e digitale, la mano dell'artista con la precisione computazionale, la funzione con l'ornamento, l'artigianato con la fabbricazione digitale e la natura con la cultura.”
Ripensando a tutto ciò che ha realizzato finora, guardando indietro – ma solo per un attimo – il tema che ha esplorato nel corso di tutti questi anni si può sintetizzare in una sperimentazione costante di un mondo concepito “quale teatro che ospita uno spettacolo tra forze progressiste e forze conservatrici, e che si può trovare ovunque nella rete della vita. Nella natura, nella cultura, nella politica. Questa tensione mi ha sempre affascinato. Il mio lavoro è un continuo work-in-progress che riflette su questo spettacolo in continua evoluzione”, conclude.
Guardare le opere di Laarman significa entrare in territori in cui la definizione tradizionale (in caso ce ne fosse una) di design traballa. È tecnologia che si sporca di terra, biologia che diventa algoritmo, consuetudine che accetta l’imprevisto del futuro. Ogni oggetto è un prototipo di mondi possibili, vicini e lontani tra loro. E forse è questa la lezione più urgente, ossia che l’innovazione non sta nell’andare avanti a tutti i costi, ma nel trovare il punto in cui passato e futuro smettono di essere due direzioni opposte.
