Promo testo stripe

I verbi del design

Nelle mostre della XXI Triennale di Milano, che chiude oggi i battenti dopo cinque mesi, è sembrata emergere un’inclinazione enciclopedica per mettere in risalto alcune questioni cruciali.

Il tema “Design after design” della XXI Triennale di Milano ha aperto la via a molte declinazioni e ipotesi. Nonostante la varietà dei materiali esposti, delle discipline coinvolte e degli autori presenti, un sottile filo rosso si è distinto. E si tratta di una tesi curatoriale presente in più di una mostra: la declinazione all’infinito di verbi. Interrogati se questa fosse un’indicazione scelta dal comitato scientifico, i curatori hanno risposto che si tratta di semplice coincidenza.
E se quest’ultima rivelasse comunque un’esigenza, un’istanza del contemporaneo che è indice di un sentire comune? Anche perché, persino quando di verbi all’infinito non si tratta, emerge comunque nelle mostre un’inclinazione enciclopedica che potrebbe essere l’altra faccia della stessa medaglia. Ricordando anche che quella al compendio dei saperi è una tendenza curatoriale di cui recentemente l’arte si è spesso avvalsa, come massimamente espresso nel “Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano Gioni alla Biennale d’Arte di Venezia del 2013.
I verbi del design
In apertura e qui sopra: viste della mostra “Neo-preistoria. 100 verbi”, curata da Andrea Branzi e Kenya Hara alla Triennale di Milano
Rileggendo alcune prefazioni dei curatori delle mostre della Triennale emergono alcuni spunti che danno fondamento a questa scelta. Spiegano Luisa Collina e Cino Zucchi, introducendo la mostra “Sempering” da loro curata al Mudec: “Azioni come quella di impilare materiali pesanti, connettere strutture leggere, plasmare materiali teneri, incidere involucri sottili, piegare fogli, intrecciare fili, comporre tasselli o soffiare aria possono essere viste come atti primari capaci di inventare forme impreviste alla luce di nuove tecnologie, ma anche come verifica di ‘costumi’ o consuetudini formali sedimentate nel confronto con condizioni inedite”. Quindi un tentativo di mettere in relazione funzioni base sempre esistite con risposte contemporanee, quasi a tracciare un filo conduttore tra passato e presente in cui l’invariante resta la necessità della funzione, l’unica a non mutare nonostante il divenire di tecniche, materiali o competenze.
I verbi del design
Vista della mostra “Sempering”, a cura di Luisa Collina e Cino Zucchi al Mudec

L’altro effetto di una tale impostazione è quello di non imporre una lettura univoca, ma di lasciare la mostra come “opera aperta”, secondo la nota tesi semiotica di Eco. “L’Atlante”, sottolinea Pierluigi Nicolin in apertura di “Architecture as Art”, bozza di un archivio e traccia di una mappa, “presenta una disposizione di cose nello spazio unitario di un parterre che allude all’inizio di nuove azioni e modi di essere. La mappatura, che esclude in linea di principio una gerarchia, un centro e un ordine di significazione, risponde alla volontà di offrire un’enciclopedia aperta”.

Anche la nuova versione del Design Museum, dedicata da Silvana Annicchiarico alle donne del design (e aperto fino ad aprile 2017), non manca di lasciare libero il flusso del progetto, articolato in due macro-sezioni “verbali”, Intrecciare e Procreare, attraverso le opere delle progettiste in ordine cronologico. A queste si affiancano gli approfondimenti sul Proteggere, con una galleria di sante protettrici con i loro oggetti-attributo, e Rappresentare, che sottolinea il progetto dell’allestimento curato da Margherita Palli.

I verbi del design
Vista della mostra “Sempering”, a cura di Luisa Collina e Cino Zucchi al Mudec
Ma la mostra dove questa ipotesi si evidenzia al massimo è “Neo-preistoria. 100 verbi”, dove la questione è compresa anche nel titolo. I 100 verbi sono intesi qui come “attività umane rivolte a risolvere puntualmente singole necessità sociali e individuali” racconta Andrea Branzi, curatore insieme a Kenya Hara della mostra. L’impellenza della funzione diviene allora un grado zero per mettere in risalto alcune questioni cruciali. Prima fra tutte la sostanziale indifferenza della storia specialistica del design all’atrocità di alcuni fatti e cambiamenti della storia reale, come spiega sempre Branzi. E, conseguentemente, la speranza può essere o quella di una riconciliazione tra progetto e vita, come già auspicato dalle avanguardie radicali, o quello di accettazione del “Caos non come semplice mancanza di ordine ma come partecipazione alla legge che governa l’universo degli uomini e delle cose. (...) Forse questa è una delle conquiste fondamentali del XXI secolo: accettare l’esistenza di problemi che non possono essere risolti”. L’unica via di rigenerazione del paesaggio progettuale allora forse passa proprio dal comprendere nuovamente le funzioni. Se gli anni Cinquanta sono stati quelli della Forma, e i Novanta/Duemila quelli del Processo, con le sue tavole degli elementi e la negazione della forma stessa, ecco che allora quelli presenti possono essere gli anni delle Funzioni e dei bisogni primari che esse scandiscono.
I verbi del design
Vista del Triennale Design Museum, dedicato da Silvana Annicchiarico alle donne del design
“Combinando cento utensili e cento verbi – sostiene Hara – abbiamo provato a descrivere come poema in forma fissa la storia dei desideri dell’umanità”. Ma non dimentichiamo che anche negli anni Sessanta e Settanta le Funzioni sono state alla base del progetto. Declinare verbi all’infinito o parlare di “sedute” al posto di “sedie” nasceva proprio da un’esigenza rifondativa che ricorda molto quella presente. “Non disegna per una funzione ma disegna una funzione” diceva Ettore Sottsass a proposito di Charles Eames e della sua Lounge Chair. E anche più tardi un Atlante del Design, scritto da Alfonso Grassi e Anty Pansera nel 1980, utilizzava verbi all’infinito al posto delle tradizionali suddivisioni tipologiche (la stessa Pansera che aveva lanciato già qualche anno fa la sua crociata sul design femminile che preannunciava quella attuale). D’altra parte la battaglia al modello tipologico rientrava in quegli anni nel pieno del dibattito post-moderno: rifondare il progetto passava attraverso l’abbattimento delle tipologie tradizionali e il ripensamento della funzione ancor prima che della forma.  
I verbi del design
Ingresso al Triennale Design Museum, dedicato da Silvana Annicchiarico alle donne del design
Concludendo, questo tornare sulle Funzioni attraverso l’artificio dei verbi all’infinito potrebbe davvero corrispondere a un rinato interrogativo sui nostri bisogni primari, reso ancora più evidente dalla ridondanza alla quale ha condotto la tesi formalistica e tipologica. A patto però che non nasconda il desiderio di eludere la responsabilità di una tesi, lasciando l’enciclopedia onnicomprensiva al posto della gerarchia selettiva, il dizionario al posto della storia critica. Perché come diceva George Perec in Pensare/Classificare, raccolta di scritti che partiva proprio dalla domanda posta dai due verbi e conclusa con una forma letteraria che prefigura l’ordine senza mai raggiungerlo: “Può darsi anche che sia un usare e un abusare di quella vecchia figura retorica chiamata excuse, grazie alla quale invece di affrontare il problema da risolvere, ci si contenta di rispondere alle domande con altre domande”.
© riproduzione riservata

Progettare a partire da un segno: l'ultima collezione di Vaselli

La serie Hoop declina un gesto morfologico in una famiglia di arredi da bagno in travertino, un incontro tra la poesia della materia e il rigore della forma.  

Ultimi articoli di Design

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram