


Cominciando dall’inizio, la riflessione più articolata se la meriterebbe la mostra al MAK “Nomadic Furniture 3.0”, in cui i curatori hanno astutamente trovato un titolo depistante sotto il quale si risolve la loro chiave di lettura nei confronti del fenomeno contemporaneo del DIY (fai-da-te). Anziché scegliere, cioè, di fare una mostra deliberatamente dedicata all’argomento e alle sue reali implicazioni a vasto raggio, Sebastian Hackenschmidt, Thomas Geisler e Martina Fineder conducono il visitatore in questo inventario straordinario di possibilità alternative in risposta al motto “have more, own less” che, a loro avviso – attraverso una catena spirituale che parte da Victor Papanek e James Hennessey – caratterizza l’atteggiamento del nuovo nomade contemporaneo: impermanenza come nuova libertà abitativa?
Al tempo stesso, questa mostra – a cui sottendono domande intimamente critiche, come per esempio l’insolubile nesso tra esperienze mainstream e le sottoculture alternative, tra critica sociale e affermazione individuale – offre una possibilità abbastanza inedita per fare una ripassata degli strumenti e dei risultati più interessanti nel DIY, circoscritti all’ambito furniture e casa dell’ultimo cinquantennio, giustificando così alcuni problematici assenti.







Per una nuova ecologia dell’abitare
L’eredità di Ada Bursi si trasforma in un progetto d’esame del biennio specialistico in Interior Design allo IED di Torino, in un racconto sull’abitare contemporaneo, tra ecologia, flessibilità spaziale e sensibilità sociale.