Gli ‘anonimi’ che hanno cambiato la nostra vita

Dalla lampadina Edison alla spilla da balia sono tanti gli oggetti di design senza autore sempre presenti nelle nostro quotidiano. In questo archivio di Domus 811 ne abbiamo selezionati sette, diversi ma tutti con una storia e un brevetto alle spalle.

Questo articolo, il cui autore è anonimo, è stato pubblicato in origine su Domus 811, gennaio 1999.

Sono tanti gli oggetti ben progettati e ben venduti anche se non firmati. Alcuni più di altri, però, hanno costituito una vera svolta per la nostra vita di tutti i giorni, sono stati emblema di un’invenzione. Tra i tanti, ne abbiamo selezionati sette, diversi per tipologia ma tutti con alle spalle una storia interessante e un brevetto, spesso molti brevetti, che la raccontano e la custodiscono allo stesso tempo. La lampadina, la penna a sfera, la capsula medicale, la chiusura lampo, il mouse, il ticket e la spilla da balia sono presenti indissolubilmente nella nostra giornata, senza che quasi ne avvertiamo la presenza. Sono oggetti giusti che rispondono bene alla loro funzione e che sono ormai diventati indispensabili strumenti della nostra vita.

La lampada di Edison. Fiat Lux

In fondo, il tema dell’anonimo ha a che fare con una sostanziale “non intenzionalità” estetica. Di solito gli oggetti anonimi non hanno pretese di bellezza. I criteri estetici sembrano esclusi da ogni tipo di ricerca sulla forma. Seppure la bellezza non venga ricercata, essa appare comunque una conseguenza del tutto naturale di un processo ‘giusto’, ‘corretto’, in cui la forma ‘logica’ in quanto puramente necessaria produce un’alta qualità estetica.

La lampadina è un oggetto straordinariamente bello. La sua forma perfetta nasce da mille ragioni, tutte legate a questioni tecnologiche, combinazioni ingegnose di meccanismi, di materiali, di conoscenze fisiche, chimiche e meccaniche, ma la somma non riesce a restituire la forza dell’immagine, emblema dell’invenzione, simbolo stesso dell’idea.
Thomas Alva Edison, con i suoi 1093 brevetti (in queste pagine pubblichiamo i più significativi), è un personaggio entrato nel mito della storia moderna, ma raramente viene citato come designer: il suo nome suona strano nella storia della cultura del design come è stata internazionalmente riconosciuta.

La sua fu dedizione incondizionata al mestiere di inventore. Il lavoro tenace e appassionato, oggetto di un organizzatissimo programma sperimentale, di un’applicazione ostinata sempre in bilico tra intuizioni folgoranti e rigoroso metodo di ricerca, si riassume nell’immagine di Edison che in un angolo di quella fabbrica delle invenzioni che fu il laboratorio di Menlo Park “lotta con l’invenzione” provando e riprovando fino a una soluzione soddisfacente.

Edison diede inizio alla ricerca sulla lampadina nell’autunno del 1878, a Menlo Park, a poche miglia da Manhattan. Lì concertò il preludio all’invenzione, risultato sicuro di un lavoro concepito come attività collettiva sempre sospesa tra due luoghi simbolici: il laboratorio e la biblioteca. La lampadina è il risultato straordinario di questo programma di ricerca, essa stessa mette insieme numerosi brevetti. Colpiscono innanzitutto la ricerca sul materiale per l’incandescenza prima di individuare il filamento di carbone, le innumerevoli combinazioni di metalli, rivestimenti, ossidi, o quella della soluzione della connessione tra sorgente di luce e alimentazione elettrica, tra lampada filamento e innesto della corrente: l’attacco Edison appunto.

La penna a sfera. La ruota della scrittura

Si tratta di un’invenzione dell’ungherese Làszlo József Biró, revisore di bozze e tipografo presso un giornale di Budapest e anche pittore, il quale assieme al fratello chimico Georg e a un tecnico industriale lmre Gellért fabbricò il primo prototipo. Il problema era andare al di là della penna stilografica, un oggetto imperfetto, che bisognava ricaricare continuamente e che provocava delle macchie. Biró brevettò l’invenzione nel 1938 in Ungheria (n. 2.265.055), ma allo scoppio della guerra mondiale andò in Argentina dove creò un laboratorio per produrre e vendere i suoi primi ‘birome’. Un articolo della rivista Time lanciò l’invenzione, brevettata nel 1941 negli Stati Uniti. Da allora, Birò si è dedicato a sfruttare il brevetto in tutto il mondo. Uno degli acquirenti dell’invenzione fu Marcel Bich, nato a Torino. Nell’invenzione di Birò intuì grandi sviluppi grazie alla semplificazione. Fu così che, nel 1949, lanciò un primo prodotto. Come diceva Bich, si trattava dell’“applicazione della ruota — o meglio della sfera — alla scrittura”. Seguì la famosa Bic Cristal lanciata nel 1953, che viene prodotta ancora oggi in forma quasi identica. II piccolo foro nel corpo esagonale serve a trasmettere la pressione atmosferica all’inchiostro, il cappuccio ha un fermaglio per fissarla al taschino e il taglio sulla punta — introdotto recentemente — serve a evitare incidenti ai bambini che la potrebbero ingoiare. La sfera in carburo di tungsteno può scrivere fino a tre chilometri di seguito senza fermarsi. Ogni giorno Bic vende in tutto il mondo circa 20 milioni di prodotti per la scrittura in oltre 160 Paesi. Quanti ne avete comprati in tutta la vostra vita? ... Siete mai riusciti a finirne uno?

La capsula medicale. Una navicella commestibile

“Pillole alimentari di diversi diametri, confezionate in astucci bivalve molto eleganti per forma, colore, materia, semitrasparenza e semplicità d’apertura”. La descrizione di Munari che allude a un’analisi del pisello come esempio assoluto di good design ci fa pensare all’origine prima dell’invenzione in questione: la capsula per scopi medicinali. D’altronde la forma primordiale (il brevetto ottocentesco) evoca le dimensioni perfette del piccolo legume, ma la forma sferica di questa prima allusione nell’adattarsi ai procedimenti industriali si allunga in una forma a “bozzolo di baco da seta”. A mano a mano fino al brevetto moderno (quello più significativo è Snap-Fit®, della Capsugel del 1968) la forma della capsula si definisce in funzione del suo riempimento, si modella sulle base delle ragioni dell’incastro dei due cappucci in cui una sorta di o-ring integrato sigilla la connessione. La pillola allude al gesto magico in cui un piccolissimo agente medicamentoso sortisce un effetto che ha del miracoloso. Il primo brevetto, ossia la ratifica industriale dell’invenzione (risale al dicembre del 1833) si deve a François Bernabé Achille Mothes. Da Parigi in breve egli ottenne una posizione di monopolio in tutto il mondo. Le prime capsule erano delle “vescicole fatte di gelatina” fabbricate immergendo dei sacchetti di pelle riempiti di mercurio in soluzioni gelatinose. Una sottile pellicola tendeva ad aderire alla matrice in materiale poroso. Una volta indurita, il mercurio veniva svuotato dal sacchetto-matrice, in modo che la gelatina, ormai assunta forma di capsula, potesse essere sfilata senza difficoltà. Ogni singola capsula veniva poi riempita e otturata con un'ulteriore goccia di gelatina.

La chiusura lampo. Guerra ai bottoni

Si tratta di uno dei marchingegni più originali e complessi della storia dell’invenzione. È nato il 29 agosto 1893 per mano di Whitcomb L. Judson (vedi brevetto n. 504,038, pagina accanto in alto), un ingegnere che aveva tentato senza successo di produrre un modello di tram su gomme per la sua città, Chicago. L’asta a gancio di sua invenzione brevettata fu il precursore dell’attuale chiusura lampo. Fu chiamata “chiusura e apertura a graffe per scarpe” poiché era stata pensata specificatamente come un’alternativa alla chiusura faticosa degli stivali con i lacci. Si trattava di un sistema complicato di ganci che si univano e si separavano grazie al passaggio di un ferretto che cambiava direzione secondo l’uso — aprire o chiudere — e che si poteva estrarre. Il marchingegno risultava veramente una novità poiché non aveva nulla in comune con altre trovate precedenti, se non quella più remota descritta in un brevetto del 1851 di Elias Howe: un sistema di chiusura a base di lacci e intagli che non fu mai realizzato. Assieme a Harry Earle, Judson fondò la Universal Fastener Company di Chicago, ma il prodotto lanciato sul mercato nel 1896 risultava molto complicato da produrre e difficile da usare da parte del pubblico e, inoltre, si guastava spesso. Per il fatto di essere in metallo si arrugginiva con l'umidità o quando lo si lavava, ed era quasi impossibile ripararlo se un gancetto si staccava. Il nuovo direttore dell’impresa Lewis Walker lanciò nel 1900 sul mercato un modello migliorato di Judson con il nome di “C-curity, the fastener” con lo slogan “un’invenzione del XX secolo. Risparmia tempo e arrabbiature” e il suo impiego passò dall’ambito ristretto delle calzature a ogni tipo di capo di abbigliamento, soprattutto femminile, e altri usi come buste per tabacco, borsette, ecc. Judson morì nel 1909 e non riuscì mai a intuire le possibilità di una invenzione che oggi è indispensabile nella nostra società ed è perfino arrivata sulla Luna. Fu Gideon Sundback a lanciare nel 1917 (vedi brevetto n. 1,219.881, pagina accanto in basso) un modello senza i complicati ganci anteriori simile a quello che usiamo oggi. Si chiamava Hookless (senza ganci) e, successivamente Plako e soltanto alla fine degli anni Venti l’invenzione fu battezzata con il nome di ‘zipper’, parola onomatopeica del rumore provocato dal veloce funzionamento. La chiusura lampo garantiva una chiusura perfetta, senza i vuoti che lasciavano gli abituali lacci, non si rovinava mai, risparmiava tempo nel vestire, eliminava i bottoni e garantiva sicurezza (i precedenti gancetti avevano pizzicato più di un dito!).

Nel 1929, solo sul mercato americano furono venduti 17 milioni di pezzi, e nel giro di dieci anni già se ne producevano 300 milioni. Nel 1950 si calcola una produzione di 1.000 milioni all’anno. La creatrice di moda Elsa Schiapparelli decretò il successo della chiusura lampo inserendola come leitmotiv nei suoi modelli alle sfilate della fine degli anni Trenta e pittori come Dalí l’hanno utilizzata come elemento simbolico in alcuni dei loro disegni. Negli anni Cinquanta è iniziata la produzione in alluminio e, più tardi, negli anni Settanta in materia plastica. Chi non apre e chiude almeno una chiusura lampo al giorno?

Il mouse. L’indice naturale

Il design anonimo è la scuola che insegna a parlare un linguaggio intuitivo, immediato nei suoi riferimenti evidenti, ovvi, facili da capire. Uno sforzo di chiarezza è implicito del tema del design ‘anonimo’, dove tutto parla per essere immediatamente capito.

Il mouse è l'invenzione che più di ogni altra ha centrato l’obiettivo della comunicazione tanto da riuscire a rendere intuitivo e naturale l’uso dell’elaboratore elettronico, emblema stesso della sofisticazione tecnologica. Pietra miliare nella storia dell’interazione uomo-macchina, il mouse è il risultato delle ricerche condotte da Douglas Engelbart presso lo Stanford Research Institute durante gli anni Sessanta. Il primo modello è quello che incomincia a delinearsi intorno all’immagine dello schermo radar quando Engelbart, durante la seconda guerra mondiale, immagina un sistema “figurativo-visuale” per organizzare le informazioni sullo schermo in modo da poterci quasi ‘volare’ intorno. Convinto che il computer in qualità di estensione delle capacità cognitive dell’uomo dovesse essere portato a esprimere tutte le sue reali potenzialità, Engelbart si dedicò a costruire intorno a questa idea che prefigurava il futuro un apparato adeguato di strumenti; da qui ebbe inizio un rigoroso programma di ricerca.

A Stanford nel 1968, durante una mitica messa in scena multimediale dell’Augmentation Research Center guidato da Engelbart, fecero la loro prima apparizione il sistema a finestre multiple, l’ipertesto e il mouse: il computer stava diventando uno strumento accessibile a tutti. Espressione del primo comandamento dell’interazione: “Non dirlo, farlo”, il mouse è stata la chiave per interagire in modo naturale col computer; in fondo anche a questa piccola appendice si deve la sua trasformazione in oggetto domestico. Come primo segnale di ‘umanizzazione’ della macchina, questo sistema di puntamento sotto forma di topolino ha liberato la mobilità nello spazio dello schermo introducendo un codice di comportamento gestuale basato su poche azioni elementari: puntare (pointing), bussare una o due volte (clicking, double clicking), trascinare (dragging).

Fino alla comparsa del mouse, lo schermo non aveva potuto che applicarsi sul modello della pagina del libro, al suo andamento bustrofedico (ossia da destra a sinistra, dall’alto in basso imitando il movimento lento del bue che ara il terreno, prima ispirazione per il modello della scrittura). Il mouse è un segno di liberazione, rompe la rigida parcellizzazione dello schermo in file ordinate di righe e colonne che ingessavano lo spazio virtuale, per aprire il libero movimento nello schermo in maniera naturale sull’eco del gesto di indicare, archetipo della comunicazione, così da concentrare tutta la coscienza dell’azione sulle punta delle dita.

Il ticket. In fila democraticamente

Gli Italiani non amano le file: non rientrano nei loro comportamenti naturali. Ma forse sarebbe più corretto parlare al passato. Gli italiani, come milioni di persone in tutto il mondo, hanno imparato a fare la fila senza paura di perdere il proprio turno. La svolta è avvenuta con l’installazione dei distributori di biglietti numerati, un sistema che consente di essere “in fila” senza stare in una fila: quando sull’indicatore appare il numero di turno, il possessore del ‘ticket’ corrispondente sa che è arrivato “il proprio momento”.

Il primo ticket dispenser viene introdotto in Svezia nel 1956 dalla società Turn-O-Matic, tanto che il sistema è conosciuto come Turn-O-Matic Queuing System. Ma il vero segreto del sistema sta nel ticket di carta: deve staccarsi senza rompersi, avere una forma che lo renda riconoscibile e rintracciabile anche nella tasca più affollata.

Il disegno del biglietto deriva da un’idea di Ake Ehrlund, sviluppata successivamente da Tom Ahlstrom e Hans Ehrich nella forma ora conosciuta e trasformata in prodotto da Esselte Meto per il sistema Turn-O-Matic® (Patent 359.793). Il dispensatore adatto ai nuovi biglietti viene disegnato da A&E Design nel 1972: riducendo drasticamente i componenti interni, D-80 assicura il corretto svolgersi del rotolo al suo interno e facilita lo stacco del ticket, la cui lingua sporge nella parte bassa del dispensatore. Questa impostazione viene capovolta nel modello D-90, disegnato da A&E nel 1989: in questo caso il biglietto viene estratto dalla parte alta dell’apparecchio, tirando la linguetta verso il basso, secondo un gesto che appare più spontaneo ed efficace.

La spilla da balia. Sicurezza sul filo

L’ufficio dei brevetti americano (l’anagrafe delle invenzioni, ossia l'istituzione che ne riconosce lo status) sull’onda della Rivoluzione Industriale ha concesso dal 1790 più di sei milioni di brevetti, tutti con un unico obiettivo implicito: migliorare la vita quotidiana dell’uomo.

La spilla da balia è un esempio classico di design anonimo, inteso nel senso più tradizionale del termine in cui oggetti d'uso quotidiano colpiscono per la straordinaria chiarezza della loro ragion d’essere: si trovano come ‘spiazzati’ rispetto a qualsiasi intenzionalità creativa. Diceva un grande cultore dell’anonimo come Bruno Munari: “Molti prodotti sono venduti senza il nome dell’autore, e vi sono oggetti che vengono prodotti da molti anni e che si vendono bene solo perché sono ben fatti e non perché sono stati progettati da un divo del design”.

La spilla di sicurezza è un oggetto tanto ben fatto da tramandare la sua forma inalterata nel tempo da più di 100 anni. Espressione perfetta delle ragioni della materia secondo cui un unico filo sottile di ferro nello svolgersi della sua geometria lineare diventa di volta in volta molla, spillo o fermaglio, la spilla di sicurezza è un esempio sicuro di design ‘monomaterico’, ‘multifunzionale’, ‘ecologico’, ‘minimalista’... Il suo inventore nel testo di accompagnamento del brevetto nella primavera del 1849 scrive: “Il carattere distintivo di questa invenzione riguarda la costruzione di uno spillo in un unico pezzo di filo in metallo che combina una molla e un fermaglio o gancio; in questo fermo è infilata la punta dello spillo in modo da rimanervi fermamente assicurata per azione della molla stessa”.

I disegni che accompagnano il brevetto presentano i prospetti di questa piccola macchina utilissima, disegnati a scala reale e accompagnati da lettere come si trattasse di un teorema pitagorico. La figura 1 rappresenta lo schema ‘puro’, quello più sintetico, più astratto, della spilla da balia. La lettera A indica lo spillo propriamente detto, B la molla a spirale e D il fermaglio ricavato sulla punta più estrema della barra C, dalla parte opposta alla molla. La figura 2 rappresenta una versione del tutto simile alla precedente con la sola variante dell’andamento ellittico della molla a spirale. Questa immagine mostra la spilla aperta nella posizione in cui tutte le tensioni che agiscono all’interno del filo di ferro si trovano in posizione di equilibrio-riposo. Una volta sganciato lo spillo dal fermo, la molla si scarica lasciando aperto il circuito. La figura 4 mostra una versione in cui la molla a spirale è organizzata lungo un piano perpendicolare a quello dove si trovano tutti gli altri elementi del sistema.

Le figure 6, 7 e 8 mostrano le possibilità di abbellimento con decori che si possono far aderire alla barra C od ottenere sagomandone l’andatura. L’aspetto ornamentale si sposa con i vantaggi di sicurezza e durata che distinguono questo progetto da tutti quelli precedenti. L’autore specifica che non esistono giunti da rompere o cerniere che si possano consumare o allentare nel corso del tempo, inoltre risulta facile da usare e per di più non rovina i vestiti né rischia di procurare ferimento alcuno.

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