Ford e il mito della catena di montaggio

Il 7 ottobre 1913 Ford inaugurò la catena di montaggio sviluppata per il modello T. Per l’occasione pubblichiamo da Domus 816 una narrazione dell’azienda americana.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 816, giugno 1999.

Fondata nel 1903, Ford Motor Company è stata classificata nel 1996  da Fortune 500 come la seconda più grande azienda al mondo. Le sue vendite sfiorano i sette milioni di veicoli per anno, prodotti o assemblati in trenta Paesi e distribuiti in oltre duecento attraverso un network di diecimila e cinquecento concessionari.

L’azienda, cui fanno capo i marchi Ford, Mercury e Lincoln, possiede Jaguar, Aston Martin Lagonda e Volvo e ha partecipazioni in Mazda e Kia, dando lavoro complessivamente a più di trecentosettantamila persone. Fra le prime a credere nel mercato mondiale dell’automobile, Ford sta lanciando un programma strategico di design cui dovrà corrispondere una nuova immagine globale del prodotto per il prossimo millennio. Obiettivo evidente: ridiventare, come ai tempi della mitica Ford i, il più grande produttore automobilistico del mondo.

Henry Ford e l’auto universale

Henry Ford non ha inventato né l’automobile né la catena di montaggio. Seguendo una visione personale che lo pone  in assoluto, avanguardistico anticipo rispetto ai suoi contemporanei, Ford ha inventato la mobilità di massa. “Costruirò un’automobile per le grandi masse, costruita con i migliori materiali dai migliori operai. Dovrà essere cosi a buon mercato che nessuno sarà impossibilitato a comprarla”. Per fare ciò, dopo dodici anni di esperienze progettuali le più disparate, realizza il modello T, un’automobile tanto anonima sotto il profilo estetico e di design quanto peculiare nel suo principio costruttivo, basato sulla “intercambiabilità completa dei pezzi e sulla semplicità di incastro”. A questo principio, oggi assolutamente scontato, si associa una costante ristrutturazione del ciclo produttivo che, in chiave taylorista, viene scomposto in operazioni elementari: il ciclo medio di un montatore Ford passa dai 514 minuti del 1908 ai 2,3 minuti del 1913. Nello stesso anno si eseguono nel nuovo stabilimento di Highland Park i primi esperimenti sulla catena di montaggio (l’idea è presa in prestito dal mattatoio di Chicago), che permette un’ulteriore riduzione del ciclo a 1,19 minuti.

L’accelerazione della produzione è immediata: il tempo di assemblaggio dei telai si riduce da dodici ore a un’ora e mezza; ogni 10 secondi una vettura finita esce dallo stabilimento. Per evitare i tempi morti di produzione tutte le vetture prodotte vengono ora verniciate nell’unico colore a rapida essiccazione: il nero giapponese. Secondo una direttiva storica che durerà fino al 1925 — con l’introduzione delle vertici alla nitrocellulosa — è ora possibile avere una Ford T di qualunque colore “purché sia nero”. Questi risultati sono ancora più strabilianti se si pensa che Ford persegue, in antitesi con la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, la completa integrazione verticale della produzione: dalle miniere di estrazione delle materie prime alla lavorazione e trasporto di dette materie fino agli stabilimenti, tutto è di proprietà Ford.

I vantaggi si riflettono economicamente sull’azienda — che nel 1914 vende più automobili di quante non ne vengano prodotte nel mondo da tutti gli altri fabbricanti messi insieme — sui consumatori, che vedono una continua riduzione del prezzo — dagli iniziali 850 ai 450$ del 1914 — sugli operai, cui viene offerto nello stesso anno un salario giornaliero di 5$ per otto ore di lavoro — per quanto alienante, comunque più del doppio rispetto alla prassi industriale dell’epoca.

Il principio di base del fordismo, secondo cui all’aumento dello sfruttamento della forza lavoro corrispondono un aumento della produttività e una proporzionale riduzione dei prezzi che devono essere compensate da un maggiore consumo — reso a sua volta possibile da migliori condizioni salariali — porta certamente gli Stati Uniti al miracolo economico e alla grandiosa esplosione politico-culturale di inizio secolo che getta le basi dell’americanismo moderno. Parallelamente però, la velocità con cui si sviluppa la rivoluzione sociale ed economica è uno dei fattori che portano alla grande crisi del ’29, sulle cui ceneri si evolve un comportamento consumistico più moderno — al quale si deve far fronte con un sistema produttivo più flessibile — che Ford ha saputo realizzare solo parzialmente. L’idea di Ford di un “modello universale” — adatto a tutti e per sempre — non regge in realtà all’evoluzione dei gusti e all’attenzione allo stile indotti proprio dallo stesso benessere raggiunto grazie all’espansione fondista del mercato. Chiamato nel 1920 a dirigere la General Motors, Alfred Sloan intuisce l’importanza dell’‘aspetto’ sulle vendite dell’automobile e, unitamente a una ristrutturazione aziendale all’insegna della de-burocratizzazione e della flessibilità, istituisce un dipartimento Art&Color alla cui guida chiama Harley Earl, l’inventore del moderno design automobilistico.

Offrendo, pur a un prezzo superiore, vetture esteticamente più accattivanti, GM riesce nel 1926 con la sua Chevrolet a superare la Ford nelle vendite, sfiorando il milione di unità prodotte nell’anno.

È la fine di un mito: diciannove anni e quindici milioni di vetture dopo la sua prima apparizione, la piccola T, che ora costa solo 260$, esce di scena. La produzione nei trenta-cinque stabilimenti Ford è bloccata, gli operai sono sospesi dal lavoro: nessuna idea su come debba essere il nuovo modello. Commercializzato nel 1928, questo si chiamerà, a significare il nuovo corso dell’azienda, Model A. Naturalmente disponibile di serie in sette colori e sei diversi tipi di carrozzeria.

Lo sviluppo del prodotto Ford negli anni a seguire è piuttosto improntato alla proliferazione dei modelli in rispondenza al mutare dei gusti dei consumatori che all’impostazione di un’identità di marca — prodotto e posizionamento — stabile nel tempo. La decentralizzazione della produzione e di particolare rilevanza soprattutto in Europa, dove gli stabilimenti di Dagenham e Colonia seguono una politica commerciale e progettuale spesso antitetica generando da un lato una corrente di pensiero inglese, quasi raffinata e pretenziosa, e dall’altro una tedesca, più sobria e solida pur se ispirata alla grandeur americana.
Nel complesso, in un’altalena di ritrovamenti stilistici spesso originali, anonime berline — la generazione Fordor — si sovrappongono a ricercati prodotti di nicchia — la intramontabile Thunderbird; grandi successi commerciali — la mitica Mustang — cancellano il ricordo di clamorosi flop — la Edsel; vetture utilitarie come la Escort fanno da contorno a supersportive come la GT40.

Al profondo anonimato degli anni Settanta — anni, oltretutto, di grande crisi — segue un’apatia che porta alla totale perdita di senso della marca stessa. Il primo tentativo di rivitalizzazione si ha negli anni Ottanta con il lancio della Sierra in Europa e della Taurus in America: un design pulito, fluente, aerodinamico, il cui successo iniziale non viene sostenuto da un’adeguata strategia di prodotto, che torna presto ad avere un look corretto ma anonimo e indifferenziato. Il generalizzato risveglio del mercato dell’automobile negli anni Novanta, intuibile nel crescente interesse per le vetture classiche come bene emozionalmente godibile, porta molte case a un recupero dell’immagine di marca come valore aggiunto per il prodotto. Operazione quasi improponibile per Ford nel suo ruolo di “marca che non c’era”. In questo scenario viene lanciato il programma New Edge: alla ricerca di una riqualificazione globale e permanente...

New Edge design: la funzione nascosta

Alla ricerca di una qualificazione globale della marca, è stato necessario operare drasticamente dando vita a un’identità Ford costruita a tavolino, non solo in termini di descrizione, ma anche di visualizzazione. Nelle parole di John Mays, “il New Edge nasce essenzialmente da piani relativamente morbidi creando intersezioni nette e spigolose che aiutano a delineare la sofficità in una maniera più tecnica. Le automobili dalle linee morbide sono generalmente più amichevoli rispetto a quelle spigolose, ma introducendo in forme morbide una certa precisione gli aspetti tecnici, la dinamicità, l’espressività vengono enfatizzati e l’idea complessiva è che questo si rifletta direttamente nelle qualità stradali della vettura”. Tutto ciò si ricollega direttamente alle parole chiave dell’identità Ford: progressista, sincera, vivace.

L’approccio teorico del progetto è evidente: il New Edge nasce come stile analizzando le tendenze in atto e operando una sintesi digressiva: raccogliere i segni latenti in chiave dicotomica unendo concavo e convesso, morbido e spigoloso, quadro e tondo, simmetria e asimmetria cercando di creare un mix originale e resistente ai segni del tempo. Il bilanciamento mirato degli elementi caratterizzanti dovrebbe poter consentire una continua attualizzazione delle vetture sfruttando al meglio la corrispondenza con diverse tipologie, mercati, tendenze. La componente prevalente, quella grafica, si presta a infinite modulazioni di segno, ora leggero — laddove si richiede più ‘decenza’ — ora carico — dove la nicchia di pubblico permette una maggiore ‘volgarità’. L’esame delle quattro vetture finora presentate permette  già dei confronti: la giocosità, seriosa, ami-automobilistica di Ka attira un pubblico dai gusti facili e immediati; l’ambizione sportiva di Puma si riflette nella maggiore fluidità delle linee più stilizzate — il richiamo alle GT vere è fondamentale per la legittimazione della piccola sportiva. La ben delineata solidità di Focus, che nelle versioni berlina e station wagon tende quasi alla normalità, si adatta al vasto pubblico di una vettura media per gente media; la volutamente scompensata originalità di Cougar si relaziona indubbiamente al desiderio di distinzione di un pubblico al tempo stesso più maturo ed esibizionista.

Letto in questi termini è chiaro che lo scopo del New Edge è quello di creare distinzione, dinamicità, innovativa eleganza: un fatto di stile dunque?

Nelle parole di Claude Lobo, ex direttore del Ford Small and Medium Vehicle Center, “non si tratta di uno stile o di un trattamento superficiale: il New Edge è un modo di lavorare. È vero che le intersezioni nette sono create per accentuare il carattere della vettura, ma esse sono anche il risultato del desiderio di migliorare e facilitare il processo produttivo e aumentare la qualità”. Grazie al New Edge è possibile stabilizzare le lamiere durante lo stampaggio riducendo gli scarti e il tempo di produzione della carrozzeria che, nel caso di Ka, arriva al 30%.

In aggiunta a ciò, lo studio aerodinamico, funzionale, ergonomico porta a rivedere i criteri di progettazione dell’intero package per migliorarne l’efficienza complessiva. Così, nel caso della Ka, lo studio dell’impronta a terra e il posizionamento delle ruote agli estremi della carrozzeria hanno permesso di minimizzare il raggio di sterzata fra muri facilitando la manovrabilità; gli intelligenti fascioni paraurti che estendono a integrare i passaruota aiutano a ridurre i danni derivati dai piccoli urti in parcheggio. Nella Focus, l’abitabilità è stata studiata con un software SIS di nuova generazione che ha permesso di estendere il range partendo dal 4° e fino al 99° percentile; il particolare posizionamento delle luci posteriori crea un voluto ‘tick’ stilistico ottimizzando al contempo visibilità e funzionalità della parte posteriore che, disegnata per ottenere un forte effetto Kamm, permette buoni risultati aerodinamici.

Il New Edge teorizza dunque la funzione nascosta, necessaria ma non più sufficiente a “far vendere” il prodotto ed è destinato perciò a rimanere agli occhi del pubblico uno ‘stile’. In questo si deve riconoscere da una parte il coraggio di Ford nel proporre — ma non c’era alternativa — un linguaggio nuovo in luogo dello scontato sfruttamento di canoni stilistici rétro e la coerenza nell’estenderlo fino a farlo diventare elemento portante dell’identità di marca (un impegno ancora maggiore se si considerano i volumi di vendite tipici di Ford).

Dall’altra si ammette la perdita di senso dell’automobile come categoria oggettuale e progettuale indipendente: queste auto sono oggettivi come tanti altri, ben disegnati, accattivanti, sfarzosetti, il cui senso si ritrova solo in quella collettività di atteggiamenti al consumo accelerato guidato dall’apparenza che si pone agli antipodi rispetto al concetto di universalità di Henry Ford e che, tuttavia, è oggi necessaria per la sopravvivenza stessa del mercato.

Marche, mercati, strategie. Intervista a John Mays

Design Vicepresident della Ford, John Mays si occupa dal 1997 dello sviluppo delle strategie globali di marca per il gruppo Ford. Coordinando il lavoro di un’équipe di circa mille persone divise in undici studi nel mondo per sette marche automobilistiche, è responsabile dello sviluppo di non meno di venticinque nuove vetture — fra serie e pre-serie — e almeno dieci concept-car ogni anno. Paolo Tumminelli lo ha incontrato al Ford World Headquarters di Dearborn.

Oggi la Ford è una realtà molto complessa. Può farcene un ritratto?
L’azienda è in un periodo di continue acquisizioni, al punto che pensando a Ford oggi non si pensa più solo al piccolo ovale blu ma a Ford Motor Company, che possiede Mercury e Lincoln negli USA, una grande partecipazione nella giapponese Mazda oltre a Jaguar, Aston Martin e Volvo in Europa: tutte queste marche insieme sono sotto la mia responsabilità in termini di design. Il mio lavoro è guardare al quadro complessivo futuro di queste marche tenendole distanziate al punto che non ci siano troppe sovrapposizioni: principale obiettivo degli ultimi quattordici mesi è stato creare una strategia di marca visualizzabile, una sorta di visual DNA. Frazionare una marca nei fattori di forma, colore, materiale, texture è molto facile se si pensa, per esempio, a Jaguar. Nel caso di Ford è stato più difficile perché l’immagine è molto confusa: Ford ha fatto in passato un po’ di tutto, generando un quadro piuttosto inconsistente; nonostante undici studi nel mondo non si era mai definita una filosofia e questo è stato un problema: da un lato emergeva un certo tipo di prospettiva europea, dall’altro una visione più americana, e poi una giapponese, una australiana... In una serie di meeting si è decisa la direzione per ogni singola marca, la filosofia di design, l’essenza del brand sia in termini visivi che per quanto riguarda tutte le altre percezioni sensoriali: l’odore, ciò che si prova quando si guida, il modo in cui sbattono le porte. Tutte queste cose dovevano costituire le linee guida per far nascere i nuovi prodotti. Per quanto questo processo sia ancora in corso, è già possibile evidenziare i caratteri di una strategia globale e primaria di Ford. Ford è progressista, sincera, vivace, dove la vivacità ha meno a che vedere con il look del veicolo che con i valori associati alla marca, ma il progressismo si definisce nel New Edge design, che Ford ha già introdotto sui suoi modelli europei. Mercury diventerà più individualista e molto più espressiva: questa marca è stata in passato pensata per una clientela matura che desidera una vettura leggermente migliore della Ford ed è stata accusata di essere una Ford con un po' più di cromature. La marca sarà reinventata per orientarsi ai giovani, differenziandosi non tanto nel design — che rimane di stampo New Edge — quanto per la tipologia di veicoli offerti: non solo berline tradizionali quanto e soprattutto berline high-package, veicoli cross-training o cross-hybrid che non esistono nemmeno oggi sul mercato. Per Lincoln è stata presa una decisione conscia e molto chiara: in antitesi a Mercedes o BMW, vetture europee che rappresentano il lusso teutonico, si tenderà a riproporre la vera scuola americana, che negli ultimi anni è diventata un po’ troppo flamboyant, grossa e grassa. Dimensioni più europee e un design americano chiaro e pulito, ispirato alla Continental del I961: un insieme molto contemporaneo, snello, dinamico grazie all’uso della trazione posteriore che aiuta a creare linee più nobili, con sbalzi anteriori contenuti.

Mazda tornerà alle sue radici, innovativa e aggressiva: nel rispetto dell’immagine conseguita con veicoli di successo come RX-7 e Miata. Jaguar possiede una sensuale e misurata eleganza britannica che sarà valorizzata senza eccessive americanizzazioni. Aston Martin rimane leader tecnologico: materiali nobili come la pelle naturale affiancata però da accenni high-tech — elementi in fibra di carbonio, strutture a space-frame. Volvo rappresenta nella mente di tutti i clienti sicurezza e valori familiari: in futuro vedremo vetture ancora più solide, corpose, sobrie rispetto a quelle attuali.

Bob Lutz ha definito le Ford come vetture “normali a buon mercato, serene, adeguate” . Se cerchi nella memoria collettiva salta fuori di tutto: dal nero e immutabile modello T alle mitiche ed esuberanti Mustang e T-Bird, dall’audacia stilistica di Sierra e Taurus e alla corretta normalità di Escort e Taunus. Come siete riusciti a trovar un denominatore comune?
In lealtà ci siamo liberati di tutto questo e credo che in cinque anni non sarà più possibile rintracciare il filo conduttore fra presente e passato di Ford. Useremo la storia solo dove è applicabile e dove è importante per la gente, per il resto mi attengo a tre criteri di giudizio per i nostri nuovi prodotti: la corrispondenza ai valori della marca (progresso, sincerità, vivacità), la differenziazione rispetto ai prodotti della concorrenza e il significato che essi hanno per il cliente. Quest’ultimo è l'aspetto più importante: per molti anni sono stati creati design progressivi senza che questo fosse in relazione con i desideri del cliente. Oggigiorno non si può prescindere da questa corrispondenza immediata.

Le automobili sono sempre state in fondo progressive, poi si è imposto il rètro come strumento di recupero iconografici dell’anima automobilistica primigenia. Tu sei. Stato quasi contemporaneamente responsabile di progetti come New Beetle — tipicamente rètro — e la Audi A6, che invece si configura come automobile a-automobilistica: un approccio quantomeno dicotomico!
C’è spazio per tutto, una nicchia per tutto: quando ero in Audi, si producevano in sostanza quattro modelli di auto per un totale di circa quattrocentocinquantamila auto vendute ogni anno; in Ford abbiamo settantasei diversi modelli per un totale di circa sette milioni di auto all’anno. In una simile costellazione è possibile sperimentare: alcune auto possono essere molto serie, elitarie, pragmatiche e teutoniche, altre amichevoli, accessibili, democratiche. È la stessa positiva differenza che si ritrova tra Alessi e Braun: da un lato prodotti allegri, dall’altro maledettamente seri.

La Audi A6 è forse la prima automobile disegnata come un “oggetto di design”. Nella sua brochure, la Ford Ka viene direttamente rapportata al mondo dell’oggetto firmato. Quanto è realistica la prospettiva di automobili vendute e consumate — anche stilsticamente — come oggetti?
Lo diventeranno, totalmente e non per seguire un trend: lo styling come forma d’arte ha fatto il suo corso e credo che rimanga spazio per il vero styling in una Jaguar o in una Aston Martin, dove esso è associato con linee belle e filanti alla Pininfarina o alla Williams Lyon. Ma quando si disegna un veicolo privilegiando aspetti pratici o funzionali — o che magari è uno sport-utility — non si cerca la bellezza automobilistica pura ma semplicemente un carattere e molto di questo carattere viene da un approccio più rivolto al product-design che al design d’automobile. Molti dei nostri prodotti assumono pertanto l’aspetto di prodotti industriali e in questo senso incentiviamo l’apertura alla collaborazione con architetti, designer, stilisti, portatori di nuove tendenze e di un altro sapere.

A una molteplicità di stili corrisponde oggi una molteplicità di tipologie, in un certo senso però il progetto razionale dell’automobile sembra essersi perduto. Se guardiamo al di fuori dell’automobile, il minimalismo ‘razionale’ e oggi un trend riscoperto e riconosciuto. C’è spazio per un estetica minimal nell’auto?
Per il design guidato dalla funzionalità ci sarà posto all’interno di molte marche. Non posso dire a cosa stiamo lavorando e per quali marche ma avremo segmenti di prodotto con un contenuto molto più funzionale rispetto al passato. Questo tipo di veicoli — e Panda e Megagamma sono degli ottimi esempi — più razionale e concreto riemergerà sicuramente e Volvo potrà essere un esempio: non noiosa ma molto minimalista. In America anche Lincoln andrà in questa direzione: semplice, come ciò che mi piace disegnare. Se una linea non ha una ragione d’essere in un’automobile allora non ce la mettiamo.

Nicchie e frammentazione. Ci sarà posto in futuro per una vera Ford “World Car”, come doveva esserlo la Escort negli anni Ottanta?
Ci saranno certamente piattaforme mondiali, ma le auto avranno carattere regionale: un’automobile disegnata in Inghilterra dovrà sembrare inglese, una svedese altrettanto. Il nostro obiettivo è che, scendendo da un aereo in qualunque parte del pianeta sia possibile riconoscere anche una Ford, cosa che oggi non accade. Quale ne sarà il carattere? Ford è un’azienda internazionale basata in America, per questo vorremmo trasmettere un’immagine americana positiva, non tanto gli eccessi (l’estetica del ‘troppo’), quanto piuttosto la fiducia e l’ottimismo di questa nazione.

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