Quando Nanda Vigo ha ideato una casa con Domus

Nel 1972 la grande progettista e artista della luce proponeva in collaborazione con Domus e Driade una casa open space, con ambienti generati da arredi scultorei, radicali e optical.

Nei primi anni’70 il design italiano attraversa il compimento pieno dell’onda radicale, dove la commistione di suggestioni pop, istanze utopiche, esaltazioni di habitat completamente indeterminati e artificiali coma la Non-Stop city degli Archizoom incrocia una stagione nuova dell’industria italiana. Brand come Poltronova e Abet si legano indissolubilmente alla stagione, ma il panorama destinato a consolidarsi è molto più complesso e ampio.
Nanda Vigo in quegli anni ha già all’attivo collaborazioni, realizzazioni e progetti che hanno fatto conoscere la sua indipendenza ideativa, il suo linguaggio di luci e colori netti che generano luoghi atemporali e onirici – Cronotopi verranno chiamati alcuni di loro – e il giovane marchio Driade – il laboratorio di ricerche cui negli anni si uniranno Vigo, Mari, Mendini tra gli altri – sta accelerando la ricerca immaginativa nell’ambito del design dell’arredo.

Dal rapporto di Vigo con Domus tante idee erano nate e tante ne sarebbero seguite, e nel 1972 una di queste idee coinvolge Driade nella concezione di una “Casa che non c’è”, un open space libero dentro una struttura semplice e replicabile, in cui è la forza visuale degli arredi, segni e blocchi di colore pressochè astratti, a generare la funzione e l’atmosfera di ciascun ambiente. Il progetto esce su Domus nel febbraio di quell’anno, sul numero 507.

Domus 507, febbraio 1972

Una casa che non esiste

Una casa che non esiste, ma che può esistere – come i disegni dimostrano – ed essere realizzata in brevissimo tempo, poiché ogni elemento, ogni mobile, ogni oggetto di questa proposta di ambiente è esistente e reperibile sul mercato – in una fabbrica, in un negozio, in una galleria d’arte.

Realizzata da Domus, in collaborazione con la Driade su progetto di Nanda Vigo, la casa si fonda su un concetto molto chiaro: una “scatola” con struttura portante perimetrale, per avere uno spazio interno completamente libero, e con configurazione esterna estremamente semplice – unico elemento significante, la finestra “continua” che corre lungo il perimetro – per potersi inserire nel paesaggio in modo non aggressivo.

Domus 507, febbraio 1972

All’Interno, un “monolocale” di oltre duecento metri quadri, geometricamente diviso in tre zone (zona comune, zona genitori, zona figli) mediante il solo impiego degli arredi, i contenitori stessi, parallelepipedi modulari allineati e sovrapposti che definiscono e schermano le zone in modo variabile, e, nello stesso tempo, assorbono nel loro volume compatto e neutro le funzioni e presenze di tanti disparati mobili minori. La zona comune è la zona centrale, destinata al soggiorno e pranzo; le due zone laterali, autonome, sono le zone notte: quella dei genitori comprende, oltre al letto e allo spogliatoio, uno spazio per il riposo; quella dei figli (due figli) oltre ai letti uno spazio per lo studio e il gioco. I servizi – separati dal “monolocale” mediante pareti modulari in vetro e alluminio – sono direttamente collegati alle zone interessate: la cucina e la lavanderia alla zona comune, i gabinetti e i bagni alle zone notte.

Domus 507, febbraio 1972

Questa semplicissima distribuzione delle zone in uno spazio abitabile aperto sembra poter ben assolvere alle esigenze di una moderna famiglia, cioè di un modo di abitare semplificato e libero, e su cui non prema la presenza, fisica e mentale, di una architettura fissa e caratterizzante.

Il significato della proposta di Nanda Vigo è nel vuoto, geometrico e luminoso, di questo volume elementare, spazio-temporale, “cronotopico”. Al cui interno le composizioni modulari dei contenitori consentono ogni variazione, e l’aggiunta libera degli oggetti scelti.

Domus 507, febbraio 1972

È da sottolineare in modo particolare che l’intera sistemazione di questo interno è stata attuata con elementi di un’unica produzione: elementi componibili, la cui grande flessibilità di impiego è stata sfruttata in tutte le sue possibilità, e mobili singoli. Il tutto della Driade.

I pezzi d’arte che compaiono nell’ambiente sono stati forniti dalle gallerie: Barozzi, Colophon, Studio Bellini-Adac, Studio Marconi, e dalla collezione Sergio Tosi di Milano, e dalla galleria Ferrari di Verona. Ceramiche de II Sestante e Cedit. Lampade Arredoluce. Pavimentazione in “agugliato” Nonwoven.

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