Italo Lupi

(1934-2023)



Addio a Italo Lupi (1934-2023): la sua Milano dalle pagine di Domus

L’architetto e designer grafico, art director di Domus dal 1986 al 1991, ci lascia a 89 anni: lo seguiamo ancora una volta nell’esplorazione della città a cui ha dedicato una importante parte della sua vita.

Oltre la sua formazione di architetto – è un laureato del Politecnico di MIlano – il nome di Italo Lupi è pietra di fondazione della cultura progettuale italiana come graphic designer, art director, ideatore e curatore di allestimenti, tanto che nel commentare un suo progetto costruito per l’Università di Trento, Domus parlava de “il grafico che volle essere architetto”. Presto infatti Lupi aveva preso la via del progetto visuale e del progetto che comunica, quando dopo un periodo da assistente per i Castiglioni era poi passato all’ufficio sviluppo della Rinascente, azienda centrale nella vicenda del Compasso d’Oro, premio al quale il designer resterà legato a lungo, vincendolo più volte e progettandone recentemente il Museo. L’editoria è forse il suo mondo d’espressione massima, portata avanti da art director e poi direttore di Abitare, e anche come art director di Domus tra il 1986 e il 1991: non era che l’inizio di un rapporto che anche oggi fatichiamo a pensare concluso, tanto che la dérive milanese nella quale Lupi ha coinvolto Domus nel luglio del 2015 – esce sul numero 993 – oltre ad avere il carattere di assoluta contemporaneità che la sua visione sulla città ha sempre comunicato, dà l’impressione di poter essere continuata anche in questo stesso momento, con altri passi di un discorso intimistico e al tempo stesso capace di parlare a chiunque, come sempre hanno fatto i suoi progetti.

Domus 993, luglio 2015

La Milano di Italo Lupi

Partirei da quel grumo di edifici che si situano attorno al complicato crocicchio chiamato Cinque Vie, dove ancora permane l’unico (credo) ricordo delle lacerazioni della guerra. Un moncone di lacrime e pianti che resiste, spettrale, da 71 anni. Qui, in zona, abito, e qui godo i silenzi delle domeniche abbandonate dagli uffici. È una zona di palazzi nobiliari, di trionfali balconi (su uno di questi, di fronte a casa, si arrampicava, secondo la leggenda, Ugo Foscolo per arrivare alle stanze dell’“amica risanata”, nel Palazzo Fagnani), dove, molto più recentemente, aveva lussuosa sede la gloriosa Unimark di Bob Noorda e Massimo Vignelli. 

Domus 993, luglio 2015

Partiamo da qui. Ci sia consentito un percorso arricciato e fatto di salti e ritorni che una città con inconcluse confluenze di strade, luoghi sghembi, piazze troppo grandi (come diceva il molto citato Carlo Emilio Gadda) e una grande cultura edilizia, consente, appunto, di fare. Imbocchiamo quindi corso Magenta, veloci veloci per non cadere subito nella trappola dolcissima di Marchesi, la più bella pasticceria di Milano con le più belle vetrine da fiaba, e superiamo la Chiesa di San Maurizio (un tranquillo fronte rinascimentale chiude un’aula ecclesiale resa isolata e regale dagli affreschi ubiqui, di straordinaria fattura, del Bergognone e di Bernardino Luini, una tappezzeria affrescata e totale a proteggere la musica di grandi concerti). Così raggiungiamo i cortili dei due palazzi seicenteschi, prima monasteri e poi sedi di orfanotrofi maschili e femminili, i Martinitt e le Stelline.

Palazzi ben restaurati, con mano non precisamente leggera, dall’architetto Jan Battistoni, a cui si deve però la forte intuizione di affidare il pavimento del chiostro al disegno disteso e coraggioso di Bobo Piccoli, di non molti colori, ma di forte e modernissimo slancio pittorico. Tornando verso le Cinque Vie, il palazzo cosiddetto del Fuso d’Oro ci risveglia il ricordo amato delle architetture di Gigi Caccia Dominioni, di cui citiamo in questa sede solo due edifici della zona centrale della città, trascurando, ahimè, i capolavori periferici dalle finestre tagliate ad angolo, nella solidità di architetture cubiche e isolate. Il palazzo citato di via Santa Maria alla Porta, che si accosta con elegante rispetto al fronte della chiesa, chiude i segreti dell’edificio nella sobrietà della facciata lineare e delle finestre con gli scuri vitrei e l’allineamento a scorrere. L’altro, in corso Italia, è il più articolato edificio rosso, fatto di affacci e rientranze, di torrette binarie e di un’intuibile complessità di destinazioni d’uso.

Domus 993, luglio 2015

E, sempre in corso Italia, ancora sporge la prua forte di una ‘nave’ edilizia, lo straordinario complesso per uffici di Luigi Moretti che penetra, come una modernissima lama, nell’architettura eclettica dell’edilizia circostante e costantemente diffusa.

Siamo ancora nella zona dei ricordi adolescenziali legati alle lunghe camminate di allora, attorno al nostro Liceo Manzoni, che ci portavano a scoprire, oltre il rosso cupo (quasi il color melanzana cacciadominionesco) del restaurato Palazzo Visconti, il contrasto candido della stereometria del bianco e perfetto parallelepipedo di Asnago e Vender, costruito nell’immediato dopoguerra in via Lanzone per la Fabbrica Italiana Tubi e Ferrotubi. Un’emozionante costruzione rivestita in marmo bianco con le finestre a nastro, pulitissima e con una sorta di interspazio verde, quasi una serra: un capolavoro modernista di limpidezza assoluta, sintetico come il disegno essenziale del loro famoso tavolo in tubolare bianco per la Triennale del 1936.

Non distante, grazie alle ridotte e concentrate dimensioni di una vera metropoli come Milano, si arriva a un luogo riassuntivo di tradizioni urbane e di nuova architettura: via Festa del Perdono e largo Richini: un’oasi dove fermarsi e godere del contrasto tra la facciata dell’antico ospedale affidata da Francesco Sforza, a metà del 1400, all’architetto Filarete, e la nuova torre dei BBPR, la Velasca, robusto e forte intervento polemicamente progettato nel 1956 come de profundis dell’internazionalismo architettonico, malattia finale del razionalismo. Al tramonto, i colori dei due edifici si riassumono, il primo scurendosi e il secondo accendendo le sue tonalità di graniglia rosata. E il fermarsi qui è dolce. E poi l’antico ospedale, oggi sede dell’Università Statale, è un luogo di sperimentazione del restauro, il luogo dove la maestria di Liliana Grassi, architetto, ha saputo intervenire con accurata opera di anastilosi, ma anche con il coraggio intelligente di forti interventi di nuove architetture, integrate perfettamente nell’antico edificio. Da qui, da questa libertà esemplare, ha tratto certamente linfa per i suoi futuri progetti l’architetto Guido Canali, con il quale era bello, qui, passeggiare e commentare, negli anni fertili del Politecnico. 

Domus 993, luglio 2015

Un itinerario a se stante potrebbe essere quello dedicato alle opere, oggi dimenticate, dell’architetto Arrigo Arrighetti, che possono essere lette come testimonianza di un periodo storico in cui l’ufficio tecnico del Comune era affidato a un professionista, serissimo testimone nelle sue opere della tenacia delle amministrazioni riformiste o socialdemocratiche nel perseguire una dignità alta nell’edilizia sociale: così nella scuola elementare del quartiere sperimentale QT8, nella risistemazione, come biblioteca della città, di Palazzo Sormani e del suo giardino e nell’edilizia popolare dei quartieri Sant’Ambrogio 1 e 2 e di molto altro, così come i suoi primi suggerimenti planimetrici per la Linea 1 della Metropolitana. Milano è città di diffusa qualità edilizia: un’edilizia ben costruita con la proprietà di un buon maestro muratore. Qualità evidente soprattutto in certi quartieri, come quello di Città Studi, dove tutto il costruito negli anni Venti-Trenta-Quaranta impone ‘automaticamente’ alla mia macchina di rallentare, quando lo attraverso, per meglio godere visivamente della solidità degli edifici, della loro finitezza, di una corrispondenza perfetta con il gusto politecnico di quegli anni. Così capita di scoprire strade nascoste, piccole vie che sono una miniera di architetture interessanti. Provate a fare un giro, come esempio, in una piccolissima strada, affluente destra del più trafficato viale Corsica in direzione dell’aeroporto di Linate, via Giuseppe Longhi, dove si affrontano, nel breve spazio, tre lunghi e sconosciuti edifici per abitazione degli anni Trenta: due progettati con grande cura da Giovanni Muzio, uno da Alessandro Minali con un piccolo tempietto estroverso su strada che potrebbe essere attribuito a Pietro Portaluppi. Uno giallo, uno grigio, uno rosso, con eleganti e leggere finiture metalliche e, di fronte, una stecca di originalissimo disegno progettata negli anni Sessanta, con alti montanti in legno che segnano, forti come alti camini, tutta la facciata di ottimo disegno dove clinker e ceppo milanese conferiscono maggior dignità all’edificio.

Fermiamoci e, lasciato il centro, allontaniamoci ben oltre i Navigli e le Mura spagnole: siamo a Cusago, dove all’ombra del Castello di Bernabò Visconti, andiamo alla ricerca della casa superstite, delle quattro, progettate da Renzo Piano agli inizi degli anni Settanta. Capolavori a pianta libera, parallelepipedi di straordinaria semplicità e candore all’interno di una campagna ancora libera e verde. Muoviamoci, ora, verso Nord, per visitare una chiesa capolavoro, Santa Maria della Misericordia a Baranzate: una grande aula isolata nella periferia non ancora congestionata, progettata come una scatola splendente di luce, disegnata nel 1957, con piena maturità, da Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti.

Pareti luminosissime e sacre, schermate da pannelli di lana di vetro, al di sopra delle quali la travatura di sostegno è forte ed evidente come tutti i sistemi costruttivi industriali di Mangiarotti (di cui è impossibile non visitare le cattedrali laiche delle stazioni del Passante ferroviario in piazza della Repubblica e Porta Venezia). Più a Est arriviamo alla Bicocca di Vittorio Gregotti, cresciuta e resa viva da alberi e studenti, una metabolizzazione oggi accettata anche da chi l’ha finora rifiutata, a differenza di chi, come noi, ha subito apprezzato la forza del suo disegno urbano. Il giro periferico è finito. Torniamo in centro e godiamoci, allora, due visioni di una Milano insolita che, nel suo piccolo, ricorda una Roma Barocca. Basta osservare l’ampio spazio di Sant’Alessandro con la dominante chiesa seicentesca, il suo angelo dalla lunga tromba e la quiete non milanese della sua piazza. Oppure – ed è veramente sorprendente – basta porsi in piazza San Babila e traguardare verso via Durini, e allora scoprire la curva della strada che obbliga la Chiesa di Santa Maria della Sanità a piegarsi, assumere la forma di un violoncello e spezzare il frontale, in un tripudio barocco di mattoni a vista. Siamo ancora a Milano?

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