Attraverso l'acquario riconsideriamo il nostro rapporto con gli oceani

Al MAAT di Lisbona la mostra “Aquaria – or the illusion of the boxed sea” propone una visione inedita dell’acquario. Intervista con la curatrice Angela Rui. 

Inaugurata al Museum of Art, Architecture and Technology (MAAT) di Lisbona, l’esposizione “Aquaria – Or the Illusion of a Boxed Sea” propone una visione inedita e attuale dell’acquario: microcosmo naturale divenuto spettacolo culturale, dispositivo che addomestica e porta nelle case e nei musei degli ecosistemi marini. Presentando documenti storici e undici installazioni di artisti e designer internazionali, nel raffinato allestimento dello studio 2050+, diretto da Ippolito Pestellini Laparelli, la mostra rimette in questione il progetto di conquista degli spazi acquatici da parte dell’uomo, rivelando come il design si è imposto come strumento di questo progetto di dominio e come oggi può e deve essere ripensato per fronteggiare la crisi ecologica. Ne parliamo con la curatrice, Angela Rui

Come è nata l’idea di questa mostra sul mondo marino?
A settembre 2019 è stato rilasciato l’ultimo IPCC report sulla conservazione degli oceani e della criosfera: se non si riesce immediatamente a cambiare l’impatto antropogenico sugli oceani, le cui acque si scaldano e si acidificano, i ghiacci si sciolgono, i coralli muoiono e con loro interi ecosistemi, le conseguenze saranno non solo devastanti, ma irreversibili.
Basti pensare che negli ultimi 40 anni, gli oceani si sono svuotati del 70% di vita a causa della crisi climatica, della pesca intensiva e della mancanza di regolamentazioni adeguati.
D’altra parte, gli oceani restano sconosciuti – si stima che ne conosciamo meno del 5%. E il fatto di conoscere così poco di un ambiente lascia spazio all’immaginazione, ma anche al tentativo di leggere il nostro rapporto con l’elemento, e con le specie che lo abitano, secondo una visione inclusiva e meno estrattiva, e alla possibilità di ripensare la nostra posizione nei suoi confronti.
La mostra però adotta uno sguardo volutamente banale: l’acquario. Un oggetto popolare che è entrato nelle case borghesi nella Londra di metà Ottocento e che rappresenta la prima forma di intrattenimento domestico sotto forma di immagine in movimento: il primo antenato della televisione – mentre l’acquario pubblico può essere pensato come la prima forma di cinema. È a partire dagli acquari che si è sviluppata tutta una cultura legata al mare, al modo in cui percepiamo il mondo acquatico. Con la mostra, volevo rendere visibile la radice socio-culturale occidentale di questo pensiero, che oggi per diverse ragioni necessita di essere rivisto.

Angela Rui. Foto Mattia Balsamini

Nella presentazione della mostra metti in prospettiva l’ecosistema marino con la trasformazione della natura in cultura, come una delle conseguenze del progetto della modernità. Il mondo marino costituisce uno dei pochi spazi che resistono alla dominazione dell’uomo?
La mostra guarda a come l’oceano è entrato nelle nostre case, siano esse domestiche o culturali. Il processo di interiorizzazione del regno oceanico – attraverso scale diverse come la mente, l'oggetto e l'interno - è intrinsecamente legato alla nozione di addomesticamento, usata letteralmente per descrivere animali e piante convertiti ad uso domestico.
In particolare, l’acquario è un oggetto che incarna più di altri la separazione tra natura e cultura, e l’esperienza recente di reclusione che tutti abbiamo provato, quella di essere costretti a vivere in uno spazio domestico isolato come pesci in una boccia, mi ha fatto pensare alla corrispondenza con la dimensione acquatica artificiale che abbiamo introdotto nei nostri ambienti domestici, urbani e culturali.

È a partire dagli acquari che si è sviluppata tutta una cultura legata al mare, al modo in cui percepiamo il mondo acquatico. Con la mostra, volevo rendere visibile la radice socio-culturale occidentale di questo pensiero, che oggi necessita di essere rivisto.

Il mare quindi come il modello di un vivere insieme diverso?
Questo è l’obbiettivo, anche se la mostra parte da una domanda molto semplice: può l’idea di prossimità con la natura oltrepassare le logiche di estrazione, controllo e dominio ed essere vista come un’opportunità per ripensare e riprogettare un ambiente condiviso? Domanda attorno alla quale artisti, designer, scienziati, critici coinvolti in mostra – con l’ausilio di materiali storici che inquadrano la cultura dell’acquario – hanno reso visibile attraverso la decostruzione di logiche, processi, e vocabolari ereditati dalla cultura industriale, in particolare a partire dall’epoca vittoriana, che sancisce l’esplosione dell’“Aquarium Craze”. In questo momento storico, in cui lo sviluppo industriale si fonda sulla fede nel progresso della scienza e della tecnologia, iniziano le grandi spedizioni scientifiche che sono indissolubilmente legate a rotte coloniali ed estrazione di risorse, corpi, lavoro. Quindi, l’acquario appare come la manifestazione materiale di eredità patriarcali e coloniali, che cercavano non solo di andare alla conquista di luoghi e animali esotici o lontani, ma anche di creare narrazioni visive di trasmissione della conoscenza.

Circus Aquarium, litografia. 1873

Per decostruirle è stato necessario includere sguardi eco-femministi come quello di Maria Puig de la Bellacasa o Alexis Pauline Gumbs, che focalizzano la loro attenzione su mondi “più che umani”, per “decolonizzare” il linguaggio da una prospettiva meramente terracentrica e antropocentrica, ma anche per imparare da questi mondi a riconoscere dei valori come la vulnerabilità, la collaborazione, l’interdipendenza. Valori di cui abbiamo bisogno per vivere (o sopravvivere) in questo tempo di crisi climatica e di innalzamento dei mari.

Quale é il ruolo dell’arte, dell’architettura e del design, in questa riconsiderazione del ruolo dell’umano?
Arte, design e architettura servono come strumenti speculativi, evidenziando come l’idea moderna di vivere al di fuori della Natura sia diventata oggi un paradigma da decostruire per poter contemplare nuove forme di conoscenza situata, ma anche di solidarietà e giustizia verso gli altri, a partire da prospettive olistiche e più-che-umane.
Nello specifico, i contributi in mostra incarnano una serie di parallassi che forniscono una varietà di modi per interpretare quello che sembra essere un continuum: il film interamente girato al microscopio Reclaiming Vision di Marjolijn Dijckman e Toril Johannessen, esplora il microcosmo di un fiordo, mentre Sterile di Revital Cohen & Tuur van Balen indaga i processi industriali applicati al mercato delle specie viventi come oggetti ornamentali. 

Il MAAT di Lisbona. Foto Francisco Nogueira

Ma la mostra lascia ampio spazio al progetto come storytelling, alla narrazione come forma di “world making”: in Mood Keep di Alice dos Reis, gli axolotl dal confinamento dei loro acquari, decidono di sviluppare le palpebre, scegliendo di chiudere gli occhi come un modo per reclamare il libero arbitrio dei loro corpi e incoraggiare la comunicazione empatica. In Moving Off the Land II, Joan Jonas evidenzia le minacce ambientali, mettendo in scena l’acquario come un teatro su cui si giocano le alleanze interspecie. Prodotto per la mostra, il film di Armin Linke guida il pubblico attraverso i vari ambienti dell’Oceanário di Lisbona, mostrando l’acquario come un archivio vivente ma anche come un modello per testare un “life-system” non terrestre, un habitat biologico in cui la convivenza tra specie incorpora sofisticate strategie di cooperazione.
In questo momento storico di crisi, il contributo di artisti e designer è una forma di attivismo capace di raggiungere un pubblico ampio, materializzando dati spesso troppo complessi e astratti. Agendo in un campo “libero”, gli artisti possono presentare prototipi ed esperimenti per nuove pratiche ecologiche, utilizzando l’immaginazione e la creatività come strumenti politici.

Armin Linke, Oceanário. Lisbona, 2020

Un’ultima domanda, sul ruolo del curatore. Alle tue spalle hai esperienze importanti e internazionali, come la curatela della Biennale di Design di Lubiana del 2017, o del padiglione olandese all’ultima Triennale di Milano. Quale è la missione del curatore, e in particolare, del curatore di design?
Come dice la parola, il compito del è curatore di prendersi cura: della scelta del tema – in questo caso la salvaguardia dell’ambiente e i modi in cui l’ambiente viene percepito – pur mantenendo una posizione critica. Prendersi cura degli autori coinvolti, per sperimentare l’idea di un collettivo che agisce con un obiettivo politico comune. Prendersi cura dell’istituzione che ospita il progetto, e del tipo di pubblico che il progetto può potenzialmente intercettare. Al centro del mio interesse rimane poi la cultura del design, e in particolare l’impatto che l’ideologia della “modernità” o l’idea di progresso hanno avuto nel modo in cui noi percepiamo il nostro rapporto con la natura. L’esposizione può allora essere l’occasione per ripensare il design: oggi, se pensiamo alla società come a una rete di alleanze che vanno al di là dell’umano, si apre immediatamente un arcipelago di possibilità in cui il design può continuare ad essere ricostituente

Ultimi articoli di Arte

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram