L’America al voto nei “tableaux vivants” di George Georgiou

La serie Americans Parade è stata realizzata nel 2016, ma il suo significato più profondo è oggi più attuale che mai.

Le fotografie realizzate da George Georgiou tra gennaio e novembre del 2016 in quattordici stati americani tornano di grandissima attualità. Non solo perché realizzate durante alcune delle tante parate nazionali che si sono succedute mentre i due candidati se le suonavano di santa ragione durante la campagna elettorale, ma anche perché sono un modo per raccontare “la più grande democrazia del mondo” nel suo autorappresentarsi, ovvero attraverso i volti della gente comune, che sarebbe (o non sarebbe) andata poi a votare.

Bypassare i protagonisti di un evento o una performance per trasformarne il pubblico nel vero soggetto di una serie fotografica non è certo una cosa nuova: dalla malinconica documentazione dei cittadini al cospetto del treno che l’8 giugno del 1968 trasportò il corpo di Robert Kennedy da New York a Washington nel celeberrimo lavoro di Paul Fusco, fino agli iperrealistici allestimenti retrò che rappresentano uno dei principali leitmotiv del lavoro di Alex Prager, la fotografia ha sempre subito il fascino dello spettatore come personaggio principale della sua indagine.

I motivi sono intuibili e perfino banali, dato che in una società dove dallo sport alla musica (ovvio) fino all’informazione, persino nella declinazione meteorologica (in fin dei conti meno scontato) tutto è performance, lo spettatore diventa lo specchio in cui ogni pregio o difetto di questa stessa società è riflesso, fino a diventarne (anche se — o proprio perché — everyman) la perfetta rappresentazione. Gli Stati Uniti, poi, come testimoniato dal fertilissimo filone della street photography, vantano un eccellente livello di teatralità, che rende l’iconografia dell’americano medio particolarmente accattivante.

Lontano dalla tentazione di concentrarsi su un’estetica furba e allo stesso tempo facile, in Americans Parade (ora una mostra curata da Laura De Marco, fino al 12 dicembre a Bologna al piccolo ma sempre interessante Spazio Labo’) Georgiou sceglie però non solo il bianco e nero, ma anche inquadrature rigorose che sembrano mutuate, non a caso, dalla fotografia di scena: i suoi sono tableaux vivants, dove però non c’è allestimento ma la sensazione di messa in scena è data dalla particolare natura della realtà stessa. Una realtà, per l’appunto, che è ormai una forma performance pericolosamente radicata e mimetica, con cui possono permettersi di giocare non solo fotografi raffinati come Georgiou ma, come hanno dimostrato le elezioni di quattro anni fa, anche i politici più populisti.

Al di là del sottile straniamento dato dal fatto che assembramenti così pacifici — per non parlare dell’assenza di dispositivi di protezione individuale — sono e forse saranno sempre meno frequenti, viene da chiedersi non senza una certa inquietudine se dal 2016 a oggi sia poi cambiato qualcosa.

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