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What people do for money
Curata dall’artista Christian Jankowski, Manifesta 11 si tiene a Zurigo e si concentra su un tema – il lavoro e il denaro – appropriato per una città che è centro internazionale di finanza e servizi.
“Manifesta” è nata come biennale di arte contemporanea sui generis: itinerante e di frontiera, destinata a svolgersi in luoghi caratterizzati dal mutamento e a parlare di un mondo in evoluzione. La sua ambizione è di rispondere agli imperativi del tempo e di reagire, attraverso l’opera degli artisti, a situazioni sociali e geopolitiche individuate di volta in volta come fondamentali.
Il Paese prescelto come sede dell’edizione, con le sue specifiche caratteristiche, funge da riferimento per le scelte tematiche del curatore, che deve quindi individuare modalità sempre nuove di relazione con il luogo ospitante. L’edizione numero 11 è curata da un artista, Christian Jankowski; non si tratta di una novità; basti pensare alla Biennale di Berlino, curata da Maurizio Cattelan nel 2006 e da Artur Zmijewski nel 2012 ; e a quella di Istanbul la cui prossima edizione è stata affidata al duo scandinavo Elmgreen & Dragset.
La sede è Zurigo: una città che è centro internazionale di finanza e servizi. Da qui il tema – il lavoro, il denaro – e il titolo: “What People Do For Money: Some Joint Ventures”. Le sedi espositive centrali sono il Löwenbräu Kunst, sede del Migros Museum für Gegenwartskunst e di una serie di portentose gallerie, e la Helmhaus Löwenbräukunst-Areal; a queste si aggiungono circa trenta altri luoghi dislocati nella città, dall’università alla chiesa, al negozio di fotografia. Il tema di ciò che gli uomini sono disponibili a fare per denaro è stato affrontato da Jankowski attraverso una serie di opere “storiche” – da August Sander a Bruno Munari – e poi sviluppato nelle opere più attuali.
Collaborazione tra artisti e non artisti, inclusione di un pubblico estraneo al circolo dell’arte e riflessione sui format dei mass media sono i tre principi che Jankowski adotta nella propria ricerca artistica, e sono il motivo che ha convinto il comitato di selezione a sceglierlo come curatore. Si tratta dunque anche dei principi di base della mostra. Principi dai quali è derivata l’idea di stimolare la realizzazione di trenta nuove opere basate sulla cooperazione tra un artista e un professionista di un’altra categoria.
Così, per esempio, l’artista turca Asli Çavuşoğlu ha cercato di superare la rappresentazione idealizzata del paesaggio svizzero lavorando, con l’ausilio di un restauratore, su una serie di quadri tradizionali, alla ricerca degli strati sottostanti la superficie; Mario García Torres ha scritto per il tenore in pensione Christoph Homberger un libretto dedicato a Richard Wagner, in cui allude alla crisi delle imprese; Teresa Margolles ha messo in scena tra Zurigo e Ciudad Juárez una partita di poker che ha visto coinvolte lavoratrici del sesso transgender. Guillame Bijl ha lavorato con una dog stylist; Andrea Éva Győri con uno psicologo sessuologo; ci sono anche giornalisti, meteorologi, orologiai, dentisti, banchieri e altro. Uno spirito ironico, tipico di Jankowski, emerge in molte opere. In questa cornice si è mosso Cattelan, che, tra il poetico e il graffiante, ha invitato un’atleta paraolimpica a camminare sull’acqua del lago di Zurigo con la sua carrozzella, inscenando un miracolo in piena città.
Ogni joint venture si manifesta in tre punti: in una sede deputata per l’arte, in un luogo insolito corrispondente alle attività della figura coinvolta dall’artista, e nel Pavillon of Reflections: una piattaforma galleggiante, creata sul lago di Zurigo appositamente per Manifesta 11 dallo studio di architetti inglesi Tom Emerson, in collaborazione con trenta studenti di architettura dell’EPFZ; qui il processo che ha accompagnato ciascuno dei progetti si “riflette” nella forma di un film. Di giorno il Pavillon of Reflections viene utilizzato come punto di riferimento e come stabilimento balneare. Manifesta 11 coinvolge anche il Cabaret Voltaire, luogo di nascita di Dada, che è diventato teatro di performance per la durata della manifestazione. Qui si è svolta, tra l’altro, l’intensa performance che Ulay ha dedicato alla forza fecondante di Dada.
Ma a parte episodi come questo, la mostra lascia uno strascico d’insoddisfazione. Il tema prescelto è cogente, il fatto di essere a Zurigo avrebbe potuto rendere la mostra cruciale, se le questioni dell’economia, della finanza e del mercato con i loro meccanismi e le loro conseguenze palesi e invisibili fossero stati affrontati diversamente. A ben guardare, le opere di livello sono numerose. Ma, appunto, occorre volerle vedere. A livello curatoriale la trattazione è risultata letterale, didascalica. La mostra nel suo insieme non sembra trasmettere un pensiero originale; né risuona dei molti drammi attribuibili oggi a un’economia globale che tende a trascurare le persone. Senz’altro molto contribuisce a questa sensazione un allestimento appiattente, che rischia di neutralizzare persino opere straordinarie come quelle di Harun Farocki sul lavoro industriale o di Santiago Sierra sul tema della sicurezza.
E all’infelicità complessiva della mostra hanno resistito gli Artoons, grandi vignette umoristiche disegnate al tratto e dedicate al mondo dell’arte, alle sue contraddizioni e alle sue idiosincrasie. Le ha disseminate Pablo Helguera sulle pareti nel Löwenbräu Kunst, e sono troppo vere per non strappare un sorriso. Ci ricordano quanto rischi l’arte, sempre in bilico tra ricerca di senso e strategie di successo; e non racconta quante cose ci si trovi a fare senza soldi; dentro e fuori dal mondo dell’arte.