Made in L.A. 2012

Se il modo migliore di vedere Los Angeles è dall'auto e se lo scopo di Made in L.A. è fare luce su questo luogo attraverso i suoi artisti, allora la mostra ci riesce bene proprio mettendo in evidenza la distanza e le differenze tra le loro opere.

All'inaugurazione di Made in L.A. 2012, l'Hammer Museum di Los Angeles era in festa. Donna Summer cantava (I Feel Love), alle 9 di sera uno dei bar aveva già terminato la birra (ma niente paura, c'era un bel po' di vino), una zanzara a grandezza d'uomo fatta a maglia si aggirava tra la calca (una delle creature di paglia e fibre sintetiche di Zac Monday, presente alla serata) e c'era una folla così fitta che il parcheggio sotterraneo era pieno zeppo, mentre i parcheggi delle vicinanze erano destinati anche loro a chiudere i cancelli in breve tempo. E, perciò, le signore in tacchi alti si facevano quattro isolati di quelli di Los Angeles solo per arrivarci: all'inaugurazione di Made in L.A. 2012, la prima di una serie di mostre biennali. Con estensioni allo spazio d'arte LA ART di Culver City e alla Los Angeles Municipal Art Gallery di Barnsdall Park a Los Feliz, Made in L.A. si fa spazio anche fuori della soglia del museo e della galleria e sui cartelloni di Los Angeles, quest'estate, con tre importanti manifestazioni collaterali che ospiteranno opere di Slanguage, Roy Dowell, Meg Cranston, Nicole Miller, Cayetano Ferrer e Dashiell Manley. Situazione appropriata a una città dove "fare due passi" spesso significa saltare in macchina per andare fino al marciapiede più vicino.

Il modo migliore di vedere Los Angeles, forse, è dal sedile del passeggero di un veicolo. E se lo scopo di Made in L.A. è di far luce su questo luogo attraverso i suoi artisti, allora ci riesce bene proprio mettendo in evidenza la distanza e le differenze tra le loro opere. Anche se certi visitatori potrebbero essere contrariati dalla mancanza di ovvia coesione tra i progetti in mostra, la presenza di una comune ragione tematica suonerebbe nettamente falsa. Dopotutto, né gli artisti né le loro opere sono necessariamente collegati da qualcosa che non sia la loro residenza. E, tuttavia, Los Angeles è un nome breve per un luogo grande, con quartieri che potrebbero essere distanti tra loro anni luce. Anche se hanno realizzato queste opere a Los Angeles, molti degli artisti si sono formati altrove: altre città, altri paesi. Los Angeles è una di quelle città dove la gente va per diventare qualcuno (un artista, un attore, uno scrittore). Senza dirlo esplicitamente Made in L.A. mette in mostra il risultato di questa convergenza di energia e di ambizioni.
In apertura: Meg Cranston, <i>California (Full Size)</i>, 2012. Courtesy of the artist. Qui sopra: <i>Made in L.A.</i>, vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
In apertura: Meg Cranston, California (Full Size), 2012. Courtesy of the artist. Qui sopra: Made in L.A., vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Sulla carta, Made in L.A. presenta "artisti emergenti e sottovalutati". Sessanta di loro, per essere precisi, che per la maggior parte erano presenti alla serata inaugurale. Il risultato era una specie di gioco del "Corvo parlante" tridimensionale, in cui cercare gli artisti in mezzo alle opere e ai visitatori. Per andare un po' più in là (e indietro di molti secoli) con le citazioni letterarie, si può dire che la serata ha toccato una dimensione biblica quando mi sono trovata a desiderare di aprire il mare di gente che mi stava di fronte per poter dare un'occhiata seria alle opere d'arte: disegni, dipinti, sculture, film, installazioni e performance dal vivo. Il progetto multimediale di Dan Finsel The Space Between You and Me ("Lo spazio tra te e me"), che comprende video, nudi, Farrah Fawcett e suggestivi rilievi di argilla bruna, era circondato in permanenza da un semicerchio di teste. Finsel è tra i nomi più celebri della mostra, ma per molti dei presenti era senza dubbio una scoperta. È proprio questo il punto. Di fatto, Made in L.A. è fatta per la grande maggioranza di opere nuove, tra cui dieci commissioni importanti. I curatori della mostra sono Anne Ellegood e Ali Subotnick per l'Hammer, Malik Gaines e Cesar Garcia per il LA ART. In una conferenza stampa tenuta alcuni mesi prima dell'inaugurazione hanno descritto il processo di selezione degli artisti come una specie di caccia al tesoro. A Los Angeles spesso gli artisti se ne stanno nascosti, per scelta o per caso. Non esiste un quartiere cittadino, una comunità, un progetto che li riunisca.
Michele O’Marah, <I>Character Portrait (Isabella Blow, Mario Testino version)</i>, 2012. Photo Robert Wedemeyer
Michele O’Marah, Character Portrait (Isabella Blow, Mario Testino version), 2012. Photo Robert Wedemeyer
Insomma: le inaugurazioni sono sempre occasioni frequentate, ma la serata d'apertura di Made in L.A. lo era particolarmente; con la differenza, forse, che gli artisti presenti erano molti e di origine locale, e che le opere in mostra erano una sorpresa. Il pubblico perciò sembrava contemporaneamente curioso della mostra e fortemente legato a essa, geograficamente, socialmente e perfino a titolo personale. C'era la sensazione che, quando si criticava (o si lodava) una certa opera in mostra, l'artista potesse essere a tiro d'orecchio. Forse il pubblico qui avvertiva un altro genere di oscillazione critica, vedendo come tutti i sessanta artisti fossero in lotta per vincere un premio da centomila dollari (il Mohn Award) accompagnato dalla pubblicazione di un libro dedicato all'opera del vincitore. Una giuria di esperti sceglierà cinque finalisti tra i sessanta artisti, ma il vincitore finale sarà scelto dal pubblico tramite una votazione online e sul posto. Mentre chi critica il concorso ha paragonato questo "confronto" alla tensione artificiale creata dai reality televisivi (altro aspetto Made in Los Angeles) io preferisco invece leggerlo come un modello della competizione intrinseca al mondo dell'arte. Perfino al mondo dell'arte di Los Angeles, dove gli artisti sembrano più capaci di isolarsi dai colleghi.
<i>Made in L.A.</i>, vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Made in L.A., vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
La struttura della città permette questo genere di distanza e di lavoro solitario. E, a proposito, all'inaugurazione ho cercato di fuggire dalla folla per un momento e sono entrata nella sala della collezione permanente dell'Hammer. Qui, tra i Cézanne, i Van Gogh e i Gauguin, l'idea della coesione tra le narrazioni e le comunità fatte di componenti diversi è divenuta quanto mai immediata. Mi sono voltata a guardare l'affollato spazio della mostra attraverso la porta alla mia destra e mi sono chiesta che strada prenderanno gli "artisti emergenti e sottovalutati" in mostra: se continueranno a "essere attivi a Los Angeles" e se si ritroveranno mai con le loro opere riunite sotto lo stesso tetto.
<i>Made in L.A.</i>, vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Made in L.A., vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
2 giugno – 2 settembre
Made in L.A. 2012
Hammer Museum, Los Angeles
<i>Made in L.A.</i>, vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Made in L.A., vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
<i>Made in L.A.</i>, vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Made in L.A., vista della mostra all'Hammer Museum, Los Angeles (2 giugno – 2 settembre 2012). Photo Brian Forrest
Nicole Miller, fotogramma da <i>Untitled</i>, 2012. Courtesy the artist
Nicole Miller, fotogramma da Untitled, 2012. Courtesy the artist

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