L'Austria radicale, dagli azionisti viennesi ai superominidi

Bart Lootsma racconta a Domus la storia dell’architettura radicale austriaca, ancora poco conosciuta al pubblico, che è stata recentemente oggetto di una mostra al Design Museum Den Bosch in Olanda.

L’esposizione Radical Austria – Everything is Architecture, al Design Museum di Den Bosch in Olanda, ha messo all’onore l’architettura radicale austriaca, ancora poco conosciuta dal pubblico. Eppure, con il loro visionario e estremo sperimentalismo, le opere di Coop Himmelblau, Haus-Rucker-Co, Zünd-Up, Walter Pichler, Hans Hollein, Angela Hareiter e Raimund Abraham, attivano interrogativi di grande attualità. Diventando protesi sensoriale, performance o installazione esperienziale, l’architettura perde la sua identità o al contrario, trova la sua necessità? Lo abbiamo chiesto a Bart Lootsma, storico dell’architettura, professore all’Università di Innsbruck e curatore della mostra.

Zünd-Up, Triptychon (altar), 1970, foto, legno, collezione Timo Huber. Foto Bart Lootsma
Zünd-Up, Triptychon (altar), 1970, foto, legno, collezione Timo Huber. Foto Bart Lootsma

Cosa caratterizza i radicali austriaci rispetto ai radicali italiani e inglesi dello stesso periodo?
Prima di tutto la fisicità. Il corpo umano, le sue funzioni corporee, il genere e la gestualità sono al centro di tutto il lavoro. Più che in Inghilterra e ancor più che in Italia, gli austriaci realizzavano installazioni 1:1 e prototipi funzionanti, in cui l'attenzione era rivolta alle esperienze psicofisiologiche. Il loro lavoro era profondamente influenzato dalla body art e dalle performance degli azionisti viennesi e, più in generale, dalla tradizione austriaca di scetticismo linguistico, risalente agli anni Venti, che faceva sì che la gestualità, la pantomima e la danza avessero un ruolo predominante. In secondo luogo, gli austriaci avevano un atteggiamento diverso nei confronti della tecnologia.
Non avevano l'innocente ingenuità degli inglesi o la dialettica negativa degli italiani, ma videro la tecnologia sin dall’inizio come una sorta di protesi - di nuovo, in contatto immediato con il corpo e immediatamente sperimentata attraverso il corpo.
Gli effetti dei nuovi media, come all'epoca il telefono, la radio e la televisione, così come le nuove droghe, ebbero un ruolo centrale in questo. Le capsule spaziali erano un'importante fonte di ispirazione. La tecnologia era studiata in modo esistenziale, anche come forza oscura. 

Qual era il contesto austriaco, quando emersero le pratiche radicali?
L'Austria era rimasta isolata dalla cultura contemporanea per molto tempo. Dagli anni Trenta in poi, una quantità incredibile di intellettuali ed ebrei di prim'ordine aveva lasciato il paese e persino l'Europa a causa dell'ascesa dell'austrofascismo prima e del legame con il Terzo Reich poi. Tra loro c’erano anche molti artisti, designer e architetti. Questo trasformò Vienna in un luogo povero, buio e tetro, proprio come descritto nel film Il terzo uomo. L'Austria riacquistò la sua indipendenza solo nel 1955, sotto la condizione di rimanere neutrale. Di conseguenza, Vienna divenne la sede più importante dell'ONU dopo New York e Ginevra, base per organizzazioni internazionali come l'Agenzia internazionale per l’energia atomica, l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari spaziali e altre agenzie ONU durante la Guerra Fredda.

Per questo motivo, vi venivano regolarmente tenute conferenze e mostre che mettevano in risalto i viaggi spaziali, sia americani che russi. UNISPACE I, una convention e una mostra spettacolare di razzi, satelliti e veicoli spaziali, si tenne nel 1968. Nel 1970, si svolse la mostra Der Mensch im Weltraum nella 20er Haus, uno dei punti focali dell'avanguardia viennese.

Non stupisce dunque che i viaggi spaziali influenzarono il lavoro della maggior parte dei designer e degli architetti austriaci. Nelle loro mani la tuta spaziale e la capsula spaziale divennero architettura nella sua forma più minimalista e tecnologicamente avanzata.

Walter Pichler, textile: Elisabeth Campos, Schlafsaal, 1968. Estate Walter Pichler, courtesy Gallery. Foto Bart Lootsma

Inoltre, molte persone si sentivano frustrate dal rifiuto di molti altri di venire a patti con il ruolo dell'Austria nel Terzo Reich. Cercarono di ricollegarsi all'avanguardia viennese degli anni venti, quando la Vienna rossa, con il suo austromarxismo e il Circolo di Vienna, era ancora uno degli esperimenti politici, scientifici e culturali più interessanti del mondo. Guardavano a Wilhelm Reich, per esempio, e le sue teorie secondo cui il fascismo era il risultato dell'oppressione sessuale che si esprimeva in tensioni corporee. Le terapie brutali, secondo lui, dovevano sciogliere quelle tensioni.
Guardavano a Bernard Rudofsky, non solo perché le sue idee su un’Architettura senza Architetti avevano avuto molto successo, ma anche per le sue idee sull'abbigliamento - un altro tema ricorrente in Austria. I Sette veli dello stomaco maschile di Rudofsky, uno spaccato dell'uniforme di un soldato tratto dalla sua mostra e pubblicazione del 1947 Are Clothes Modern?, è quasi una chiave per capire il fascino che provavano gli architetti austriaci per le tute e le capsule spaziali. Guardavano a Friedrich Kiesler, l'architetto, artista e scenografo austriaco che si stabilì presto a New York e che aveva legami con quasi tutte le avanguardie internazionali.
Guardavano a Rudi Gernreich, inventore dell'unisex e del monokini, e anche attivista per la liberazione gay. E così via. Le informazioni arrivavano anche attraverso riviste come LifeParis Match e Stern. E infine, la ORF, emittente nazionale, produceva documentari e talk show in televisione che erano sorprendentemente critici e radicali nei confronti dello status quo. Dedicarono anche documentari alla maggior parte dei gruppi della mostra, documentari in cui i protagonisti avevano la possibilità di pronunciarsi in modo chiaro. La musica pop stava diventanto importnate importante. In breve: c'era una tensione produttiva fra la noia quotidiana e la prospettiva di altri mondi. 

Che impatto ebbero queste pratiche sul mondo dell'architettura dell'epoca?
In termini di progetti realizzati forse non fu molto grande all'inizio, a parte i progetti di negozi di Hans Hollein a Vienna e alcuni progetti di Domenig e Huth a Graz. In termini di presenza mediatica, nella rivista Bau, nelle mostre e in televisione l'impatto fu enorme. Anche a livello internazionale: Hollein vinse il Reynolds Award per il suo negozio Retti, alla piccola gioielleria Schullin venne dedicata una pagina intera di questa rivista. Più tardi realizzò le Media Lines per i Giochi Olimpici di Monaco, costruì una galleria a New York e il Museum am Abteiberg a Mönchengladbach. Poi vinse il premio Pritzker. Il gruppo Haus Rucker Co participò a diversi documenta prima di realizzare una serie di enormi complessi culturali in tutta Europa con il nome Ortner & Ortner. Coop Himmelb(l)au realizzò alcuni piccoli caffè e ristrutturazioni prima di partecipare alla mostra “Deconstructivist Architecture” al MoMA di New York e iniziare a costruire complessi culturali in tutto il mondo. In definitiva, ci fu un’influenza immediata sui media e un riscontro più lento nella construzione. Solo Walter Pichler si ritirò consapevolmente dal mondo dell'architettura e costruì il proprio mondo a St. Martin.

Hans Hollein, Alles ist architektur, Bau, 1968

Il titolo della mostra ha ripreso la celebre formula di Hans Hollein, “tutto è architettura”. E in effetti, i protagonisti della stagione radicale estesero le loro pratiche al di là dei supporti tradizionali, realizzando film, performance, installazioni. Ma allo stesso tempo, la frase di Hollein indica una ridefinizione dell'architettura come pratica universale. Questa frase ha ancora senso oggi? O dovremmo sostituire il termine architettura con design?
Ha ancora senso, credo, sia che si sostituisca architettura con design o meno. Forse ha più senso che mai. Molti architetti e designer fanno cose che tradizionalmente non sarebbero considerate architettura o design - come indicò Hollein. Grazie a Dio, perché altrimenti ce ne sarebbero troppi. In generale, penso che non si debba più pensare in termini di discipline. In Olanda, ad esempio, gli istituti settoriali per l'architettura, il design, la moda e la comunicazione si sono uniti creando il Nuovo Istituto. Una cosa che possiamo imparare dall'avanguardia austriaca degli anni '60 e '70 è che questo può funzionare.

Fra i vari progetti presentati, spiccano i caschi o gli abitacoli che impongono una forma di isolamento. Ricerche che hanno la loro attualità...
Assolutamente sì. È un equivoco però che impongano una forma di isolamento. Uno dei pezzi che abbiamo ritrovato per la mostra è Feedback Vibration City di Coop Himmelb(l)au del 1971: un concetto di città in cui gli individui sarebbero collegati da una rete che non trasmette solo informazioni visive, ma riguarda anche agli altri sensi. Nel suo 50° anniversario, il progetto è stato realizzato da Internet durante i lockdown del 2021.  

Un altro aspetto fondamentale è la critica alla società tecnologica espressa dai radicali austriaci. Cosa ci insegna oggi questo esempio storico?
Che la critica deve andare di pari passo con un’attrazione. Questo da la possibilità di riflettere fino in fondo su diversi scenari. Al centro dell'avanguardia austriaca ci sono punti di partenza uguali o simili, ma in fin dei conti non c'è una posizione omogenea condivisa da tutti.
Hollein e Pichler partirono da lavori e idee simili nella loro leggendaria mostra “Architecture”, del 1963, alla Galleria Nächst St. Stephan, ma alla fine Hollein continuò a celebrare un culto molto commerciale, di ispirazione pop, e divenne famoso, mentre Pichler lo rifiutò sempre più, enfatizzando l'alienazione che produceva la tecnologia quando si ritirò nella sua fattoria a St. Martin e costruì una propria mitologia individuale.

Anche se a prima vista ci possono essere corrispondenze visive, i primi lavori di Haus Rucker Co e Coop Himmelb(l)au avevano obiettivi e implicazioni molto diverse. Le posizioni potevano anche cambiare nel tempo, come nel caso di Haus Rucker Co che partiva sviluppando una consapevolezza ambientale nei suoi lavori degli anni settanta, Piece of Nature (Preserved), Rhine Infusion e Klima 2 Atemzone. Ma proprio per questo, poteva crescere un dibattito ricco.

I più radicali nella critica alla società tecnologica furono gli Zünd-Up. Nel Triptychon (altar) del 1970 ci troviamo di fronte a una specie di famiglia cyborg: un padre orgoglioso e 'tecnico' e una madre che dà alla luce il 'bambino tecnico', che ama molto. È una nuova specie di Santa Trinità. Spiegando il contributo, Zünd-Up scrisse: “L'insetto tecnologico ci pugnala nella nostra stessa carne, ma quando ci ha avvelenato?”.
Ma l'ambivalenza è sempre predominante. Come potremmo altrimenti interpretare i motivi segreti per cui lasciamo che la società tecnologica ci sfugga di mano e prenderli sul serio? In Medium Total, Domenig & Huth svilupparono una sorta di storia di fantascienza, una commissione unica di commento ironico, utopia e distopia. Il Medium Total è una massa liquida gialla, biotecnologica, organizzata ciberneticamente e che sostituisce l'ambiente costruito. I superominidi, una nuova forma di vita umana, vi abitano dentro e, dopo decenni di guerre sulla Terra, espanderanno la loro colonizzazione alla luna e a Marte. Una volta che l'universo si sarà stabilizzato di nuovo, gli “ammassi Medium Total” torneranno sulla terra, orbitando come satelliti, per poi colonizzare gli oceani. Nasceranno i Nova- superominidi, che si sposteranno sulla terra e si distribuiranno in tribù. Dopo di che seguiranno nuovi attriti, nuove rivalità e nuove guerre. Il progetto fu sviluppato in modo straordinariamente dettagliato, sia in termini di contenuto che di tecnologia.

Immagine in apertura:
Walter Pichler, Telefon-Set, 1968. Courtesy Gallery Elisabeth & Klaus Thoman. Photo Bart Lootsma

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