Le architetture utopiche del solarpunk

Movimento capace di produrre soluzioni alle sfide che definiscono la nostra epoca, il solarpunk pensa e progetta un mondo in cui prosperità, pace e bellezza siano un obbiettivo realizzabile.

Anja, la protagonista di Oval, romanzo di fantascienza scritto da Elvia Wilk e da poco pubblicato in Italia per i tipi di Zona 42, abita sulla Berg.

Nella finzione del libro, la Berg è una collina artificiale sorta nel cratere che, un tempo, fu l’aeroporto di Tempelhof [1]. La Berg è un insediamento ecosostenibile, a emissioni zero, costruito dalla multinazionale che domina la città e le vite dei protagonisti. La Berg è un incubo marcescente di inefficienze, guasti e malfunzionamenti. La Berg è una distopia carbon free. Germoglia all’ombra proiettata dal Green New Deal, è ecologia priva di critica al sistema produttivo. Dunque giardinaggio. O meglio, il suo equivalente urbanistico.

Anche nel mondo tratteggiato da Wilk — che è il nostro, solo qualche minuto in anticipo — la transizione ecologica, ovvero la dinamica che dovrebbe guidarci oltre la crisi climatica che stiamo vivendo, è irrimediabilmente compromessa, inglobata nell’orizzonte del realismo capitalista. Quello che ci viene venduto come risolutivo nei rendering, nelle proiezioni statistiche, nei discorsi dei politici si rivela essere solo uno dei tanti futuri distopici tra cui possiamo scegliere. La cosa non dovrebbe stupirci. Viviamo in una realtà a tal punto problematica che la distopia è il tono che più di ogni altro contribuisce a definire il mood a cui si accordano la maggior parte delle visioni del futuro prodotte dalla nostra cultura: dal cyberpunk allo steampunk alla climate science fiction, la nostra capacità di immaginare ciò che verrà domani appare dominata da visioni cupe, intrise di pessimismo.

Il solarpunk fa eccezione a questa regola. Nato tra le pieghe di internet, è un artefatto culturale complesso e sfaccettato. È, al tempo stesso, un sottogenere letterario della già citata climate science fiction; un’estetica in cui natura e tecnologia convivono in una relazione equilibrata, mutualmente proficua; un movimento di critica alle attuali strutture sociali ed economiche, che, proprio nell’armonizzazione di natura e tecnologia, ne prefigura un superamento in termini che è corretto definire utopistici.

Il solarpunk recepisce dunque quelle spinte di pensiero che postulano la necessità di un ritorno all’utopia come strategia per immaginare, visualizzare e progettare un futuro capace di rompere con le cornici di senso che definiscono il tono dell’epoca in cui viviamo.

Storia e origine del solarpunk

Per trovare la prima occorrenza del termine “solarpunk” è necessario tornare indietro di dodici anni, a un post intitolato From Stampunk to Solarpunk e pubblicato nel 2008 su Republic of the Bees, un blog di economia e politica che dedica particolare attenzione a una coppia di temi: la transizione solare e la teoria e pratica dei beni comuni. In quel testo, che commenta il varo e il viaggio inaugurale della Beluga Skysail, la prima nave da cargo contemporanea a incorporare un sistema di vele per ridurre il consumo di carburante, viene ipotizzato per la prima volta un nuovo genere letterario, il solarpunk appunto.

Il modo migliore per descriverlo, dice l’autore, è in contrasto con lo steampunk: “Lo steampunk si concentrava sulla tecnologia vittoriana come modello per immaginare un mondo alternativo; l’interesse del solarpunk per le tecnologie del passato è mosso dalle moderne economie. Dal momento che il petrolio non è più una fonte d’energia conveniente, allora è auspicabile recuperare tecnologie cadute in disuso e basate su altre fonti di energia, come l’eolico e il solare”.

Inoltre, dice ancora l’autore di Republic of the Bees, un’altra differenza tra i due generi sta nel fatto che “le idee e le tecnologie immaginate dal solarpunk non devono restare confinate nel regime dell’immaginario. Coltivare la speranza che, un giorno, sarà possibile vivere in un mondo solarpunk, è perfettamente legittimo”.

Fin dalla sua prima apparizione, il solarpunk ha l’ambizione di essere molto più di un semplice genere letterario, di un’estetica o di un immaginario. Il solarpunk è, costitutivamente, un esercizio di visualizzazione del futuro, un manuale di istruzioni per la riprogettazione del reale che ha trovato nella rete il suo terreno di coltura e il suo veicolo di diffusione ideali. Il suo obiettivo, precisa Elvia Wilk in Is Ornamenting Solar Panels a Crime?, la sua ricognizione del genere pubblicata su e-flux, mira a “trasformare la fantascienza in azione scientifica”. È nel modo in cui prova a perseguire questo obiettivo che il solarpunk trova il modo per definire la sua dimensione politica. Ma da cosa è caratterizzata quest’ultima?

Arcosanti, Paolo Soleri, Arizona, United States, 1970

Le dimensioni politiche del solarpunk

Uno degli elementi che meglio definisce il solarpunk è la sua natura speculativa. Ovvero, come abbiamo già evidenziato, lo sforzo rivolto alla progettazione di un mondo in cui prosperità, pace, sostenibilità e bellezza non siano soltanto auspici, bensì un obiettivo realizzabile, alla portata di un movimento organizzato capace di trasformare in azioni concrete i suoi spunti di critica dell’esistente. È questa la definizione che ne dà Andrew Dana Hudson, in un lungo saggio pubblicato su Medium e intitolato On the Political Dimensions of Solarpunk, che ha come argomento proprio le implicazioni politiche del genere.

Sostiene Dana Hudson che “salvo il verificarsi di cataclismi radicali, urbanizzazione, invecchiamento della popolazione e cambiamento climatico saranno gli elementi che definiranno il contesto della vita nei prossimi 50 anni. Concrete sono le possibilità che, a metà del 21esimo secolo, un essere umano possa essere invecchiato o vivere in una comunità invecchiata; che la città sia il suo habitat e che le comunità, gli stati e le catene di approvvigionamento siano afflitte da una combinazione di eventi climatici estremi, innalzamento del livello degli oceani e siccità”

Fedele al suo spirito “punk”, il solarpunk ha come compito quello di opporsi al dominio politico del vecchio, ma con la consapevolezza di doverci convivere. Perciò, dal momento che architettura e infrastrutture sono due elementi chiave dell’estetica solarpunk, mirare alla convivenza tra generazioni significa progettarle affinché siano sostenibili nel lungo periodo e abbastanza flessibili da saper servire i bisogni di persone con esigenze molto diverse tra loro. Farlo comporterà anche la necessità di riorganizzare di conseguenza le forme del vivere in comune, armonizzandole tanto al mutare del contesto climatico, quanto alla nuova organizzazione urbana che sarà necessaria per far loro fronte. L’attenzione sarà perciò posta sulla dimensione di mutuo scambio economico, su pratiche politiche generative e procedurali, su logiche di convivenza modulari, leggere, open source. Una prospettiva che si avvicina molto all’idea di cura dell’infezione planetaria, la cui necessità è ben formulata da Donna Haraway che, nei primi paragrafi del suo Chthulucene, afferma come si necessario “essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati”. Tuttavia, come nei testi di Haraway, anche quello del solarpunk è uno sforzo consapevole del fatto che questa riprogettazione del mondo non potrà avvenire che con una spinta dal basso verso l’alto. Il panorama sarà perciò dominato da comunità sparse e collegate tra loro, che sorgeranno fianco a fianco con realtà dominate da altre modalità di gestione dell’esistente. Nella sua dimensione politica, il solarpunk non mira a imporre un ordine globale, quanto a determinare uno strato di connessioni e relazioni che, come dice ancora Haraway, permetta di “con-vivere e con-morire insieme all’altro” e a cui sarà possibile accedere accettandone le regole e le consuetudini, modificandole di conseguenza.

Nel percorso verso questo progetto politico, immaginario ed estetica assumono un ruolo cruciale.

Arcosanti, Paolo Soleri, Arizona, United States, 1970. Immagine originariamente pubblicata su Domus 569

Immagini per rifare il mondo, l’estetica del solarpunk

Il solarpunk ambisce a essere un movimento di rigenerazione del reale capace di produrre soluzioni alle sfide che definiscono la nostra epoca: invecchiamento della popolazione, crescente urbanizzazione e cambiamento climatico. Nel farlo, esprime un’attitudine al recupero di tecnologie cadute in disuso e alla loro integrazione con altre più contemporanee, oltre che a una più generale armonizzazione di tecnologia e natura. Tratti che vengono recuperati anche dalla complessa estetica espressa dal movimento. Potremmo affermare, se ne volessimo definire gli estremi, che essa si colloca in uno spettro visivo compreso tra espliciti richiami all’art noveau e riferimenti diretti al più contemporaneo design biofilico.

Tra questi due estremi si disegnano dunque architetture di vetro e metallo, serre e giardini d’inverno che fungono da ideale contraltare delle fortezze di vetro e cemento che dominano l’orizzonte visivo delle metropoli cyberpunk, alla cui opacità contundente si oppongono invece ariose trasparenze che ricordano le architetture islamiche. È in questi volumi spaziosi che, filtrata e virata dal verde delle piante e dall’azzurro delle acque, penetra la luce solare, accarezzando fioriture di pannelli solari e pale eoliche ornamentali. Tutto brilla di tenui sfumature smeraldo e acquamarina. L’aria è pulita, fresca e respirabile. Ogni cosa appare circonfusa di un tenue alone d’umidità, come se le persone galleggiassero in una nuvola di acqua nebulizzata. L’atmosfera ricorda gli evocativi universi dei film di Hayao Myazaki che, infatti, è uno dei riferimenti estetici più citati quando si parla del solarpunk e della sua estetica. Un’estetica che abbraccia ogni aspetto del mondo e della vita. Decorazioni, ornamenti, abiti e gioielleria, tutto si accorda a questo stile ibrido, dove antico e ipermoderno si confondono l’uno nell’altro.

Questa fusione di tempi diversi — che fa sì che tra le influenze del genere possa citarsi anche la città di Arcosanti, il prototipo di insediamento arcologico realizzato su impulso e sotto la supervisione di Paolo Soleri nel 1970 in Arizona — può essere letto anche come un effetto della disarticolazione del senso del tempo operata dal diffondersi delle tecnologie digitali. Come nota Aaron Z. Lewis in The garden of forking memes, un saggio pubblicato di recente sul suo blog, “internet ha appiattito il vasto archivio del passato e reso la storia immediata come mai prima nella storia”. Questo appiattimento ha avuto come conseguenza la fratturazione della nostra esperienza collettiva del tempo. Internet ci appare perciò come un’immensa superficie su cui, durante la navigazione, si formano gorghi in grado di trascinare le persone sotto la superficie, nelle profondità meno illuminate della rete, lungo infiniti imbuti di senso, che ridefiniscono l’esperienza soggettiva della realtà, curvandola fino a ricostruirla, a renderla reale.

Con i suoi blog su Tumblr, le sue bacheche su Pinterest, i suoi gruppi di discussione su Telegram o Discord e i suoi hashtag su Instagram, il solarpunk è uno dei tanti gorghi in cui ci si può imbattere lungo la navigazione. È qui che risiede la sua forza più grande. Se è vero che scivolare in uno di questi vortici semiotici ha come effetto una ridefinizione dell’esperienza soggettiva della realtà che, nel confronto con l’elaborazione collettiva degli immaginari, con la produzione di meme, di senso e di sapere, viene curvata fino a ricostruirsi, allora l’obiettivo di riprogettare il reale appare non più come una speranza, un auspicio, un gioco di specchi infinito, bensì come un orizzonte raggiungibile, a portata della mano di un movimento che dopo aver elaborato una sua politica deve solo, e ancora, realizzare di avere la forza necessaria per imporre la propria visione e imparare come esercitarla.

[1]:
Situato nella zona sud-ovest di Berlino, a cavallo dei quartieri di Neukölln e Schönberg, l’aeroporto di Tempelhof si estende per 386 ettari. Nel 2001 è stato traformato in un parco pubblico, il più vasto della capitale tedesca. Dal 26 giugno del 1948 al 12 maggio dell’anno successivo, venne utilizzato come pista d’atterraggio per il ponte aereo di Berlino, l’operazione con cui gli Stati Uniti e i loro alleati rifornirono Berlino ovest, circondata dalle truppe sovietiche

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