“Parlare di architettura mi annoia preferisco farla.”

Basterebbe questa frase per ricordare chi fosse Fabrizio Carola. Ed è evidente che, partendo da questa sua dichiarazione , qualsiasi parola potrebbe risultare superflua per descrivere la sua architettura.

Del resto sarebbe riduttivo oggi , a quasi un mese dalla sua scomparsa,  considerare la storia  di  Fabrizio come quello di un “semplice”  architetto. Allo stesso tempo credo valga la pena ribadire un paio di questioni riguardo alla sua figura cosi atipica nel panorama italiano e internazionale, spero Fabrizio non me ne vorrà.

In realtà ho sentito parlare del suo lavoro sin da bambino attraverso mio padre, esperto di medicina tropicale con molte esperienze in Africa. Pure essendo napoletano come Carola,  solo da studente dell’Architectural Association di Londra ho cominciato veramente a conoscere le sue architetture. Ma è dopo vari anni dalla mia prima lettera che gli inviai che finalmente riuscimmo ad incontrarci a Bruxelles e poi a Parigi nel mio studio. Subito dopo mi invitò a raggiungerlo in Mali per cominciare a sviluppare collaborazioni tra due mondi apparentemente distanti, il mio digitale ed il suo analogico, ma in realtà molto vicini.  Quella fu probabilmente l’ultima volta di Fabrizio nel continente africano, i conflitti di quella regione purtroppo non ci permisero di sviluppare oltre il nostro progetto di collaborazione. Ma quello che mi ha trasmesso in quelle settimane  passate insieme me lo porterò per sempre di me con orgoglio e senso di responsabilità. Sui suoi principi, umane e culturali, ho impostato molti anni dopo il progetto dell’African Fabbers School che sto sviluppando in Camerun.

Quella di Carola è infatti la storia di un pensatore indipendente, tra i pochi che abbia saputo fare teoria attraverso la pratica, anticipando  molti temi estremamente attuali,  cruciali per le nuove generazioni non solo di architetti. Cercherò quindi di mettere in ordine una serie di appunti presi durante le nostre conversazioni di ormai qualche anno fa tra Sevarè, Bruxelles e Bamako.

Un cittadino europeo

A 19 anni decide di lasciare la sua Napoli, dove figlio di importanti costruttori avrebbe avuto un futuro garantito, per andare a studiare Bruxelles . In Belgio negli anni 50 troverà a La Cambre,  la scuola di architettura  fondata da Henry van de Velde,  un ambiente cosmopolita ma soprattutto un approccio progettuale molto incentrato sul rapporto tra forma e struttura.  Questa propensione a progettare per costruire era evidentemente nel suo dna ma, frequentando la scuola di Bruxelles, cosi legata all’art nouveau, che probabilmente Carola comincia ad interessarsi al rapporto tra architettura e natura. Una cosa è certa la sua scelta di “studiare fuori”, sentirsi europeo e costruire il suo percorso indipendentemente dalle sue origini ha anticipato quello che molti di noi hanno cercato di fare  molti anni dopo

A partire dalla sua formazione Fabrizio costruisce nel tempo un suo modo molto innovativo di intendere il mestiere dell’architetto ed il suo ruolo sociale. Senza retorica infatti i suoi progetti prima in Marocco e poi nell’Africa sub-sahariana diventano sempre di più gli elementi cardine di un agenda di ricerca ben precisa, sperimentale quanto rigorosa.

Un pioniere

Fabrizio capisce presto che l’Africa è il posto giusto dove testare un approccio ecologico all’architettura, dove l’ecologia sociale, mentale ed ambientale possano confluire. Per farlo intuisce il ruolo fondamentale della tecnologia per rendere sostenibili i processi costruttivi. Soprattutto comprende, anticipando ancora una volta tutti, quanto sia importante lavorare in osmosi con il territorio e con le persone che lo abitano. Difatti il suo approccio interdisciplinare da questo punto di vista, benché fatto di tecniche “povere”,  può essere considerato oggi estremamente avanzato.

Nel suo lavoro infatti il cantiere è anche il suo studio, inteso come laboratorio di ricerca applicata incentrato su un tema molto importante non solo per l’ Africa: l’auto-sufficienza. Su questo semplice concetto  sviluppa un metodo in grado di dare risposte concrete ai problemi relativi al cambiamento climatico da cui derivano deforestazione ed impoverimento della popolazione. In tal senso è davvero significativo come attraverso un processo semplice ma integrato sia riuscito a trasformare le criticità ambientali ed economiche di un contesto in elementi generativi dei suoi progetti.                     

Allo stesso tempo il suo modo di considerare il cantiere come un luogo di produzione e di divulgazione contribuisce a definire il carattere sovversivo della sua opera. L’ idea di evolvere il compasso di Hassan Fathy per realizzare involucri (cupole, volte etc)  interamente realizzati con materiali a km 0  ne è solo una conseguenza. In realtà Fabrizio da profondo conoscitore della società africana comprende quanto sia importante trasformare il mondo delle costruzioni in un opportunità per ridistribuire ricchezza in maniera piu equa all’interno di una comunità (un villaggio, un quartiere etc.).

Riprendendo la cultura vernacolare sub-sahariana intravede le potenzialità di interpretare il costruire come una pratica collettiva in grado di tenere insieme una comunità, cosi come accade a Djenne nel suo amato Mali alla fine di ogni stagione delle piogge. Il cantiere come fabbrica  (prevalentemente di mattoni ) diventa quindi un elemento strategico per la definizione di un approccio sostenibile che limiti al minimo la dipendenza  da materiali di importazione affermando un modello di economia circolare ante litteram. Da questo approccio olistico derivano tra gli altri alcuni progetti straordinari a favore della collettività come l’ospedale di Kaedi (Mauritania), il mercato delle erbe officinali di Bamako (Mali) ed il centro di ricerca della medicina tradizionale a Mopti (Mali).

Un educatore

Ma non è tutto, credo infatti che valga sottolineare un altro aspetto preponderante del suo lavoro: la condivisione. Pur essendosi mantenuto alla larga dall’accademia Fabrizio non aveva rinunciato ad essere un educatore, soprattutto aveva capito prima di tutti quanto fosse importante per le nuove generazioni poter imparare facendo. Per questo, al fine di tramandare il suo bagaglio enorme di conoscenza,  aveva inventato un sistema di cantieri scuola che nel tempo hanno formato una moltitudine di  giovani uomini e donne (europei ed africani) prima ancora che architetti. Per fare tutto ciò, è inutile dirlo, non bastava essere un architetto geniale,  a questo vanno aggiunte delle caratteristiche umane fuori dal comune. Tra le tante mi piace ricordare la sua apertura culturale, la sua coerenza ed un entusiasmo contagioso. Lo stesso entusiasmo con cui, quasi ottantenne, saltò sulla mia vespa in giro per Parigi raccontandomi le sue peripezie per realizzare le scenografie del film Cobra Verde di Werner Herzog .

Per il resto ci saranno teorici e professori che decanteranno le lodi dei suoi manufatti meglio di me descrivendo il ruolo del suo compasso e le performance delle sue cupole nelle cupole.

Per me e per  tutti i quelli che hanno avuto il piacere di conoscerlo sul campo resta la promessa di continuare la sua lezione e l’invito ad amare l’Africa andando a toccare con mano il suo lavoro.

PS Ecco caro Fabrizio ce l’ho messa tutta a parlare di te senza parlare di architettura …con la speranza di non avere annoiato nessuno te compreso.

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