Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 963, novembre 2012
Che memoria conservano i luoghi di quello che è accaduto? Provate ad andare a Quarto, presso Genova, a vedere di persona lo scoglio da cui sono partiti i Mille per la loro impresa; oppure, in via Caetani, a Roma, dove è stato abbandonato il corpo senza vita di Aldo Moro dentro a un'automobile. In entrambi i luoghi c'è una lapide, un monumento, un oggetto e una scritta, che ricordano che cosa è accaduto in quello spazio, anni, decenni, un secolo fa. I luoghi sono impermeabili alla memoria o la conservano come un segno nella propria identità?
Difficile rispondere a questa domanda, eppure bisogna porsela guardando le fotografie scattate da Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco per il progetto di ricerca curato da Fabio Severo. Raffigurano luoghi dove è avvenuto un reato — da qui il titolo del loro lavoro Corpi di Reato — di stampo mafioso: un delitto, una speculazione edilizia, una casa dove è vissuto un latitante, oppure dove tuttora vive un mafioso, un intero quartiere periferico dove è incistato un clan di malavitosi; o ancora: aule di tribunale, archivi di processi, bunker, reperti giudiziari, statue di giudici uccisi. Sono tutti luoghi, spazi, edifici, inquadrati dal loro obiettivo che vuole indicare, non solo un atto criminale, ma anche una presenza visiva: la mafia è qui, intorno a noi. Un tempo, le fotografie che ritraevano quest'associazione criminale raffiguravano delitti eccellenti, paesaggi della Sicilia: immagini che recavano con sé un elemento oleografico e confermavano luoghi comuni. Erano fotografie di costume, sedimentate nello sguardo dell'intero Paese. Poi, dopo le stragi degli anni Novanta, la mafia è uscita dal suo paesaggio consueto — palme, uliveti, rocce, muri a secco, asinelli, coppole, uomini baffuti, donne in nero, ritratti di latitanti, banditi, separatismo e così via — ed è entrata in una sorta d'invisibilità.
La memoria dei luoghi
Attraverso le immagini fotografiche del progetto di ricerca Corpi di Reato, Marco Belpoliti esamina le ferite, spesso nascoste, inferte al corpo dell'Italia dalle associazioni mafiose.
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- Marco Belpoliti
- 14 novembre 2012
- Roma
Come scrive Fabio Severo, questa criminalità — ma anche altre organizzazioni similari — è divenuta una realtà dispersa, multiforme. Ha cambiato volto, si è mescolata e confusa sempre più con il paesaggio politico ed economico del nostro Paese. Bonaventura e Imbriaco si sono interrogati su questo aspetto, e hanno concluso che potevano, e dovevano, spostare la loro attenzione sui corpi di reato, ovvero sul paesaggio e sui luoghi, supponendo, a ragione, che questi conservino una memoria, o almeno una traccia visibile degli atti criminali lì perpetrati. Si sono avventurati in una zona d'ombra, in cui le cose appaiono nella loro labilità, ambivalenza, ambiguità. Sono entrati nel paesaggio abitato da tutti noi, per estrarne delle visioni di quello che è accaduto, e che ancora accade.
Ecco, allora, un campo giochi dell'hinterland milanese, uno spazio dove i bambini possono aggirarsi tranquillamente, salendo e scendendo da altalene e scivoli, ignorando, loro e i loro genitori, che lì sotto sono stati seppelliti detriti tossici, o residui di una speculazione compiuta da un gruppo mafioso. O ancora, fissare alcuni plinti di cemento in fondo a una valletta: sentinelle solitarie, che documentano il tentativo di una costruzione voluta da un clan, e oggi sottoposta a un sequestro e un'indagine della magistratura. Un luogo in apparenza neutrale—il greto di un torrente—, deturpato da questi cilindri che dovevano reggere una strada. Se si guardano con attenzione i luoghi colti dall'obiettivo dei due fotografi—una cava, un condominio, una serie di grattacieli, una villetta, una strada, un paese, un casolare isolato, un monumento storico—, ci si rende conto che quello che i due autori vogliono fissare, e sottoporre al nostro vaglio visivo, sono esattamente dei 'corpi', non certo in carne o ossa; piuttosto, composti di materia inerte—ghiaia, terra, cemento, vetro, o altro ancora. Sono parti viventi—o morenti—del nostro paesaggio che è il vero corpo del Paese, la sua forma fisica, come aveva capito Pier Paolo Pasolini. Il poeta descriveva l'Italia come un corpo vivo, una realtà pulsante, composta di paesi arroccati sui cucuzzoli delle colline, campi coltivati, casermoni di periferia, campetti di calcio, spazi aperti sul bordo di fiumi, arenili e spiagge. L'Italia è prima di tutto il suo paesaggio, bello o brutto che sia, non importa, una realtà vivente su cui si è abbattuta nell'ultimo secolo e mezzo l'azione stupratrice e virulenta di costruttori, speculatori, gangster, malavitosi, mafiosi, camorristi.
Dopo le stragi degli anni Novanta, la mafia è divenuta una realtà dispersa, multiforme
Si tratta di un paesaggio che Bonaventura e Imbriaco fanno scorrere davanti ai nostri occhi attoniti: viottoli di campagna, estuari di fiumi, coste marine, promontori, dirupi, montagne, campi coltivati, sale consiliari, depositi cartacei, ingressi di edifici pubblici, sale di tribunale, cortili, costruzioni abusive, edifici provvisori, baracche, svincoli autostradali, guardiole, bar, mense, sale riunioni. In ognuno di questi spazi — aperti o chiusi — è avvenuto qualcosa che ci riguarda, che ci interroga, che ci turba. Eppure, tutte queste immagini ci offrono una visione di normalità. Sono scatti anonimi. Anche se si percepisce in ogni fotografia una determinazione a guardare, e dunque a far vedere, che sembra andare al di là dell'immagine stessa, la normalità sembra dominare su tutto. Ma queste immagini sono punti di domanda. Ci si sente interrogati da questa normalità quotidiana: sai che cosa è accaduto qui? Chi abitava in quella casupola? Chi vive dentro quel palazzo? Chi utilizza questa strada ogni giorno?
L'invisibilità dei luoghi e delle azioni si trasforma in una forma di archeologia visiva, che ci colpisce via via che fissiamo le istantanee, e ci scuote: non è forse quella una tranquilla strada di periferia così simile a quella in cui abito? E quelle case, non le ho già viste? Non ho portato mio figlio in un campo giochi simile? Riconoscere i luoghi e gli spazi raffigurati come parte del nostro paesaggio fa uscire la fotografia dalla sua funzione di documento e funziona come un campanello d'allarme, che scuote la nostra indifferenza, la nostra acquiescenza. Il fenomeno mafioso può essere fotografato così, dando forma a quella "zona grigia", come la chiamava Primo Levi, che ci circonda, e in cui siamo, nolenti o volenti, immersi ogni giorno. L'invisibile è diventato di colpo visibile, e dentro a quelle foto, in quel paesaggio, ci siamo noi tutti. Basta guardare.
Le fotografie presentate in queste pagine fanno parte della serie "Corpi di Reato. Un'archeologia visiva dei fenomeni mafiosi nell'Italia contemporanea": un progetto di zona, a cura di Fabio Severo. Il lavoro è in mostra fino al 23 novembre presso il ministero per i Beni e le Attività culturali, Istituto centrale per il catalogo e la documentazione di Roma