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The invisible house

Dominic Stevens mimetizza il suo credo morale nel progetto di una residenza minima, sperduta nella campagna irlandese. Progetto Dominic Stevens. Testo Laura Bossi. Foto Ros Kavanagh

Nato a Londra nel 1965, Dominic Stevens occupa tra i giovani architetti irlandesi una posizione che può sembrare singolare, ma rivela invece dei particolari risvolti ideologici. Dopo aver studiato con Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects), aver conseguito nel 1989 la laurea presso l'University College di Dublino e, come nella tradizione irlandese, essere emigrato dal 1989 al 1995 a Berlino, Stevens si è trasferito nel 1999 da Dublino a Cloone: un paesino di 327 abitanti nella contea di Leitrim, nell'Irlanda settentrionale.

Qui esercita il mestiere di architetto, ma anche altro: all'interno di uno studio one-man show (ossia di se stesso), segue non più di uno o due progetti all'anno, partecipando alla fase di cantiere come carpentiere. Intervalla architettura e agricoltura (contadino, allevatore di capre, galline e oche, produce un ottimo formaggio); a giorni alterni, si occupa dei suoi due bambini. L'atelier è un ex camion con cella frigorifera, posteggiato in cima alla collina accanto alla sua casa: un'architettura di materiali piuttosto rudi – pannelli di compensato, tavole di legno e lastre di vetro – che ha costruito durante un'estate con l'aiuto di sua moglie, alcuni suoi studenti dell'University College di Dublino e, per sua fortuna, degli abitanti del villaggio.

Una residenza in progress che modifica secondo necessità. Saper e voler costruire direttamente le proprie case può apparire un atteggiamento un po' furbetto, di quelli che certamente non sfuggono ai media: probabilmente perché non si riesce più a guardare le cose per quello che sono. Di sicuro, per Stevens il progetto della casa unifamiliare non deve essere appannaggio di pochi: per lui bisogna essere consapevoli delle risorse in gioco e costruire in prima persona là dove la terra costa poco. A sostegno della sua tesi, Stevens dice: "Oggi la casa fa parte di quegli oggetti ignoti per cui le persone devono sempre chiamare degli esperti a ripararle. Se i nostri bambini, invece, crescono in una casa in perenne costruzione, conosceranno l'arte del costruire e potranno realizzare la loro casa da soli". Utopia, ingenuità, ricerca di un'esistenza diluita in luoghi e tempi diversi. Temi che riguardano, insieme alle scelte personali, anche la visione dell'architettura, che Stevens esplora attraverso la ricerca teorica: nel 2006 ha partecipato con un progetto sperimentale al padiglione irlandese della Biennale di Architettura di Venezia ed è di prossima pubblicazione il suo saggio rural. La sua committenza, però, deve essere preparata ad abbracciare un credo diverso, o almeno essere 'illuminata'.

Non è un caso che i committenti della casa mimetica che Stevens ha realizzato nel villaggio di Dromahair, nella contea di Leitrim, siano una coppia di artisti concettuali: Grace Weir e Jo Walzer. Videoartista di rilievo internazionale, Weir ha rappresentato nel 2001 l'Irlanda alla Biennale d'Arte di Venezia. Stevens sceglie il sito – un plateau verdissimo che, per un attimo, si interrompe e sprofonda in una piccola valle – e vi appoggia sopra, come fosse un ponte, una scatola le cui pareti sono leggermente inclinate verso l'esterno. Attraverso la scelta dei materiali di rivestimento (lastre di cristallo alternate ritmicamente a pannelli riflettenti) e di un manto erboso sul tetto, mimetizza la presenza dell'architettura nella campagna irlandese: solo la notte e le luci, accese al suo interno, ne riveleranno la presenza.

La struttura cela un secondo segreto: Stevens incide il declivio sottostante, aprendo nella collina l'ingresso alla casa. Le stanze per il riposo notturno, bagno e guardaroba sono caverne scavate nella terra. Si entra così nell'habitat dell'uomo attraverso il suolo, per poi essere accompagnati da una scala a chiocciola verso la luce del giorno e salire in una stanza dominata dal bianco: qui l'architettura si rifà all'arte, con una sequenza serrata di pannelli candidi alternati a frazioni di paesaggio.
La casa non altera il paesaggio sul quale si appoggia; anzi è il paesaggio, che muta con il cambio delle stagioni, ad alterare la casa
La casa non altera il paesaggio sul quale si appoggia; anzi è il paesaggio, che muta con il cambio delle stagioni, ad alterare la casa

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