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Atelier Bow-Wow. Piccole dimore tascabili

Per Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima di Atelier Bow-Wow, Tokio è piena di sorprese e di contraddizioni che rappresentano un’incessante fonte di ispirazione per le loro creazioni architettoniche. In una città complessa e in continua evoluzione, c’è quasi un’interazione in tempo reale tra quello che i due autori vedono e quello che fanno. Domus presenta alcuni estratti del loro lavoro di ricerca (‘Made in Tokyo’ e ‘Pet Architecture Guidebook’) e tre recenti progetti. Testo di Taro Igarashi. Fotografia di Takashi Homma

Ho sentito una storiella divertente dagli Atelier Bow-Wow: avvicinando un loro progetto di una piccola abitazione a quello di un architetto europeo – i disegni erano nella stessa scala – hanno scoperto che l’intera casa da loro progettata avrebbe potuto entrare in una stanza dell’edificio dell’architetto occidentale. Pur coscienti di occuparsi tendenzialmente di piccoli progetti, questo fatto ha stupito anche loro. Visto in retrospettiva, tuttavia, esso colloca chiaramente il lavoro degli Atelier Bow-Wow all’interno del particolare contesto giapponese, cosa che rende necessarie alcune precisazioni sulla storia dell’architettura nel Giappone del dopoguerra.

I bombardamenti americani e lo sgancio dell’atomica al termine della seconda guerra mondiale devastarono tutte le più grandi città del paese, tanto che praticamente tutto dovette essere ricostruito da zero. Vennero tuttavia gli anni Sessanta, e con essi la cosiddetta “era di rapida crescita economica”, durante la quale lo sviluppo urbano avanzò a un ritmo straordinario. Le Olimpiadi di Tokio del 1964 diedero il via alla costruzione della monumentale rete di strutture in calcestruzzo del Tokio Metropolitan Expressway System; in sincronia con l’Expo di Osaka del 1970, infine, il progetto edilizio della Senri New Town, che delinea la moderna Osaka, divenne un tangibile tentativo di introdurre in Giappone i principi della pianificazione urbana modernista. Tutte queste tappe segnarono l’inizio di un cambiamento irreversibile del volto delle città giapponesi.

I membri di Atelier Bow-Wow nacquero proprio in quegli anni - Yoshiharu Tsukamoto un anno dopo le Olimpiadi di Tokio e Momoyo Kaijima un anno prima dell’Expo ‘70 – per cui già per loro non si può più parlare di “nostalgia del luogo”: la guerra e la ricostruzione avevano infatti cancellato da tempo ogni traccia del “pittoresco Giappone tradizionale”. Nel corso degli anni Ottanta, quando entrambi studiavano architettura, l’euforia causata dal boom della nuova economia Giapponese produsse un’ondata di edifici postmoderni in tutta la capitale, nei quali architetti ostinatamente idiosincratici insistettero sull’uso di un’ornamentazione sfrontata, colori chiassosi e forme eccentriche. Molti professionisti stranieri furono invitati in Giappone, e persino nomi come Peter Eisenmann, autore di un numero relativamente ristretto di progetti all’estero, ottennero delle commissioni.

C’era da fare per tutti, tanto che le commesse abbondavano anche per i professionisti più giovani: per gli architetti, si trattava di un sogno divenuto realtà. Ma con l’arrivo degli anni Novanta, la ‘bolla’ scoppiò. Proprio quando gli Atelier Bow-Wow erano agli inizi della loro attività professionale, il trampolino fu tolto ed essi si resero presto conto che per lavorare avrebbero dovuto applicare strategie diverse da quelle usate dalla generazione immediatamente precedente. Per questo, iniziarono a guardare con attenzione a Tokio così com’era e, coniugando la loro attività al dipartimento dell’Università, con interessi di altra natura, iniziarono a ispezionare la città e a presentare le loro scoperte, piuttosto che in pubblicazioni accademiche, sotto forma di guide ‘pop’. Nel loro progetto “Made in Tokyo”, inaugurato negli anni Novanta, presero in esame una serie di costruzioni ibride e apparentemente incoerenti, ma che in realtà facevano un uso efficace dei rispettivi siti, come per esempio il tetto di un supermercato utilizzato per esercitazioni di scuola guida (l’elevato costo del terreno a Tokio diede origine ad alcuni edifici molto strani).

Questa ricerca è spesso paragonata a Learning from Las Vegas di Venturi, ma è probabilmente più vicina concettualmente all’approccio programmatico di Rem Koolhaas e altri. A Tokio, i già noti ‘estremi’ della teoria programmatica di Bernard Tschumi sono già una realtà, e come a volersi a tutti i costi distinguere dalle ostentazioni degli architetti di alto profilo che diedero libero sfogo alle espressioni del loro “marchio di fabbrica” nel corso degli anni del boom, Atelier Bow-Wow rivalutano edifici di serie B firmati da architetti sconosciuti. Nel progetto “Pet Architecture”, hanno catalogato anonime forme vernacolari spuntate nelle pieghe del tessuto urbano, strutture di fortuna situate in uno spazio indefinito tra architettura e arredo.

Ecco ad esempio l’ufficio di un’agenzia immobiliare che occupa uno spazio largo meno di ottanta centimetri per una profondità di dieci metri, una cosiddetta “tana di anguilla” con una facciata meno-che-minimal, riflesso perfetto dell’endemica carenza di spazio a Tokio. Entrambe le ricerche sono sfociate in progetti espositivi, che hanno viaggiato all’estero e generato significativi consensi. Ciò è forse dovuto al fatto che le immagini da loro presentate corrispondono fedelmente a ciò che gli occidentali vogliono vedere come il caos e le sintomatologie postmoderne di Tokio, e suggeriscono una situazione che è l’esatto opposto di quella che Bruno Taut trovò nel Giappone negli anni Trenta , in cui “scoprì” il tempio di Ise e la villa imperiale di Katsura come una bellezza equiparabile alla semplicità modernista. O forse, dopo sessant’anni, rappresentano una specie di orientalismo alla rovescia.

Dal 2000, la scena architettonica di Tokio si è visibilmente polarizzata: da una parte, un rilassamento della legislazione ha prodotto una corsa a una massiccia ricostruzione; dall’altra, si è verificata una nuova esplosione nell’edilizia residenziale di piccole dimensioni indirizzata a quanti sono tornati a vivere nel centro città, fenomeno che occupa oggi le pagine della stampa popolare. Una politica tesa a favorire l’acquisto dell’abitazione di proprietà ha tirato avanti alla meglio senza grandi innovazioni fin dalla guerra, senza che sia stato fatto alcun serio tentativo per creare una ufficiente scorta di alloggi condominiali di qualità. In più, l’esorbitante tassazione sulle successioni ha incoraggiato lo smembramento e la vendita frazionata delle proprietà.

Tutto questo ha portato il Giappone a sviluppare dell’edilizia residenziale di piccole dimensioni. Frattanto, i progetti importanti sono tutti passati alle grandi imprese e ad architetti stranieri di nome, lasciando ai giovani architetti locali solamente i piccoli progetti di edilizia residenziale, in una frattura tra due mondi che appare ormai impossibile ricomporre. Gli Atelier Bow-Wow appartengono al secondo, e se i grossi imprenditori sono indaffarati a guardare la città dagli attici dei loro grattacieli, loro somigliano più a dei segugi con gli occhi fissi al terreno. In questo senso, il nome che hanno scelto, Atelier Bow-Wow, è perfettamente azzeccato. L’intento di usare fin la più piccola quantità di spazio disponibile è legato direttamente alla progettazione architettonica.

Per questo, anche quando progettano abitazioni minute, gli Atelier Bow-Wow non si limitano a occuparsi esclusivamente dell’edificio, e non perdono di vista la città. E mentre i più considerano i siti minuscoli un settore inferiore, loro rileggono questa condizione in chiave positiva. Nella loro casa Ani (1997), mettono in discussione l’abitudine giapponese di posizionare le abitazioni con uno spazio aperto verso sud ignorando completamente l’esiguità di spazio sugli altri lati; così, essi collocano un edificio compatto al centro del sito, di modo da riattivare dei margini di possibilità spaziali su tutti i lati. Con la casa Mini (1998), poi, accettando che un’incombente riedificazione avrebbe presto modificato l’area circostante, si sbarazzano del concetto di facciata e aprono i quattro lati allo stesso modo.

Nella casa Moca (2000), invece, usano produttivamente le esigue fasce di “spazio inutile” che la dividono dalle costruzioni adiacenti. In ciascun caso, l’equilibrata valutazione dei vari elementi urbani che impiegano nella loro ricerca informa ugualmente la progettazione. Consideriamo ora alcuni dei loro lavori più recenti.

Casa Gae
(Tokio, 2003) è una piccola abitazione che riflette lo stile di vita del committente – uno scrittore – che non ha ritenuto indispensabile dover usare la casa per tutte le sue necessità pratiche ma ha scelto di organizzare gli incontri di lavoro in un caffè della zona e di servirsi della biblioteca locale per le proprie ricerche. Così, questa casa di tre piani consiste di uno studio dalle pareti rivestite di librerie in compensato marrone (nel seminterrato) e da una cucina in lastre d’acciaio galvanizzato (al secondo piano), collegati da un’indefinibile spazio bianco dell’altezza di quasi due piani.

Dal punto di vista architettonico, la discrepanza tra l’enorme tetto e la minuscola ‘scatola’ sottostante è tra le più curiose. Sempre sul tetto, la lastra di vetro che attraversa gli spioventi - a formare una specie di mensola trasparente – lascia filtrare la luce e permette di intuire qualcosa del mondo circostante, mentre sotto gli spioventi è stata ricavata una tettoia per auto dividendo lo spazio con una siepe simile a quelle che in passato erano molto comuni in tutta la zona.

Casa Izu
(2004) non è situata in città, ma su un declivio con una magnifica vista sul mare (nella penisola di Izu a sud ovest di Tokio). Non volendo limitarsi a essere un passivo osservatore della natura, il cliente ha chiesto che l’abitazione fosse collocata in modo tale da misurarsi attivamente con lo spazio circostante.

La soluzione di Atelier Bow-Wow è una terrazza che sporge sul mare, camere che scendono il pendio a gradoni e uno studio che segue il profilo della costa. Come in città, il contesto è letto nel dettaglio con grande finezza. Il loro ultimo progetto, casa Kuroinuso o “casa del cane nero”, comprende una stanza per il cane, una stanza per gli ospiti, bagno, cucina e garage, tutti spazi di misura equivalente, nei quali il giovane artista Tabaimo realizzerà una serie di dipinti murali. Gli Atelier Bow-Wow partecipano spesso a manifestazioni artistiche come la Biennale di Shanghai, dove emergono i numerosi punti in comune con l’ultima generazione di artisti. Hanno da poco terminato il progetto di una casa per il direttore di una rivista.

Takashi Homma, l’autore delle immagini di questo articolo, è un loro buon amico. Diversamente da un esponente della vecchia generazione come Kenzo Tange (nato nel 1910), che lavorò al passo con la rinascita postbellica del Giappone progettando un’ideale architettura modernista vista come simbolo di uno stato risorto dalle proprie ceneri, gli Atelier Bow-Wow, nati negli anni Sessanta, sono arrivati sulla scena troppo tardi; la loro generazione ha trovato tutti gli edifici pubblici e le necessarie infrastrutture già al loro posto, un territorio frazionato ed edificato, le periferie estese ormai oltre ogni chiara demarcazione dei confini urbani. Perciò, essi hanno deciso di decodificare con cura l’ambiente circostante e determinato per personalizzarlo in quella che può essere paragonata a un’endogena versione giapponese del “Dirty Realism” di Alex Tzonis e Liane Lefaivre, che miravano a trovare usi efficaci per luoghi derelitti. Come è ovvio, ciò li espone agli strali della più vecchia generazione di architetti e critici, i quali sostengono che essi stanno solamente consolidando condizioni preesistenti o che si trastullano con i dettagli, perdendo di vista i principi fondamentali. In effetti, quando presentarono per la prima volta il loro progetto “Made in Tokyo”, anch’io considerai che enfatizzassero l’espressione pop più ‘leggera’ a spese di un appiattimento della critica sociale. In dichiarazioni più recenti, tuttavia, gli Atelier Bow-Wow hanno affermato che queste ricerche costituiscono solamente uno sforzo preliminare indirizzato al ripensamento dell’intera città del futuro immediato.

Da ciò deriva che la loro posizione non è così acritica come a tutta prima può apparire, né un’utopia che mira a ricostruire un futuro dalla fondamenta. Si tratta piuttosto di una presa sulla città di un realismo tutto giapponese, inteso a scavarne una rivalutazione critica. Cominciamo - suggeriscono - con l’esaminare tutti i dettagli trascurati del nostro ambiente architettonico. Usiamo quel che può essere usato di quanto già esiste. Solo a questo punto gli Atelier Bow-Wow inserisce la propria architettura, così da estrarre il completo potenziale di ogni luogo, avanzando cautamente per cambiare la città palmo a palmo.
<b>Gae House</b>. Il committente è uno scrittore, cui occorreva un posto di lavoro funzionale dotato di una propria biblioteca
Gae House. Il committente è uno scrittore, cui occorreva un posto di lavoro funzionale dotato di una propria biblioteca
<b>Gae House</b>. Il committente trascorre una parte sostanziale del suo tempo in questo studio-archivio-camera da letto nel seminterrato
Gae House. Il committente trascorre una parte sostanziale del suo tempo in questo studio-archivio-camera da letto nel seminterrato
<b>Gae House</b>. Benché la visione diretta dell’esterno sia impedita, ci si sente in qualche modo collegati con l’esterno grazie alla generosa quantità di luce naturale introdotta dall’intervento architettonico. Di giorno, la luce penetra dalle finestre e viene nuovamente riflessa dalla sporgenza del soffitto metallico per raggiungere le stanze intern
Gae House. Benché la visione diretta dell’esterno sia impedita, ci si sente in qualche modo collegati con l’esterno grazie alla generosa quantità di luce naturale introdotta dall’intervento architettonico. Di giorno, la luce penetra dalle finestre e viene nuovamente riflessa dalla sporgenza del soffitto metallico per raggiungere le stanze intern
<b>Gae House</b>. Mentre il seminterrato è dominato dal legno, il piano terreno è completamente bianco
Gae House. Mentre il seminterrato è dominato dal legno, il piano terreno è completamente bianco
<b>Gae House</b>. Il SOHO (Small Office, Home Office), "piccolo ufficio, ufficio domestico") è visivamente onnipresente
Gae House. Il SOHO (Small Office, Home Office), "piccolo ufficio, ufficio domestico") è visivamente onnipresente
<b>Izu House</b>, Nishi-izu, Shizuoka Prefecture, Japan. La casa si stende sul versante di una collina, e segue integralmente i parametri naturali
Izu House, Nishi-izu, Shizuoka Prefecture, Japan. La casa si stende sul versante di una collina, e segue integralmente i parametri naturali
<b>Izu House</b>. Il panorama visto dalla casa
Izu House. Il panorama visto dalla casa
<b>Izu House</b>. I pannelli di legno della superficie esterna formano una traiettoria continua lungo la collina
Izu House. I pannelli di legno della superficie esterna formano una traiettoria continua lungo la collina
<b>Black Dog House</b>, Karuizawa, Nagano Prefecture, Japan. La configurazione spaziale offre viste ininterrotte attraverso la casa
Black Dog House, Karuizawa, Nagano Prefecture, Japan. La configurazione spaziale offre viste ininterrotte attraverso la casa
<b>Black Dog House</b>. Il volume della casa è una composizione di parallelipipedi
Black Dog House. Il volume della casa è una composizione di parallelipipedi
<b>Black Dog House</b>. La parete interna è una linea continua, che si piega a formare vari ambienti su entrambi i lati
Black Dog House. La parete interna è una linea continua, che si piega a formare vari ambienti su entrambi i lati
<b>Black Dog House</b>. La natura circostante è incorniciata dalla grande finestra
Black Dog House. La natura circostante è incorniciata dalla grande finestra

Design e ceramica rinnovano un centro commerciale

FMG Fabbrica Marmi e l’architetto Paolo Gianfrancesco, dello studio THG Arkitektar, hanno realizzato il restyling del terzo piano del più grande centro commerciale di Reykjavik. La ceramica, elemento centrale del progetto, riveste pavimenti, pareti e arredi con soluzioni versatili e carattere distintivo.

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