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Pechino: Il Grande Balzo in Avanti

Uno speciale sulla ricostruzione della capitale cinese. Fotografia di Phil Sayer.

Avanza la carovana dell’architettura
Testo di Deyan Sudjic

Pechino è una città in preda a una febbre edilizia altissima, che va di pari passo con la più rapida crescita economica al mondo. Qui si sta sviluppando una lotta titanica tra un regime politico totalitario e la liberalizzazione, dovuta alla trasformazione della sua economia. Oggi Pechino testimonia l’arrivo di quella carovana internazionale dell’architettura che si sposta da una città diventata di colpo prosperosa a un’altra: da Tokyo a Dubai, con i risultati a essa intimamente connessi.

A settembre Pechino ha visto arrivare e partire in una settimana Arata Isozaki, Zaha Hadid e Winy Maas. Norman Foster concorre alla costruzione del nuovo aeroporto cittadino, Herzog & de Meuron stanno per iniziare quella dello stadio olimpico, Christian de Portzamparc disegna un nuovo sobborgo, Riken Yamamoto sta terminando un enorme complesso residenziale. La città si prepara chiaramente a intraprendere il cammino che la farà uscire dalla marea edilizia e dalla situazione di generica anonimità che l’avevano finora caratterizzata.

La Cina è il Paese dove gli architetti occidentali vanno o per cercare lavoro o per fare del turismo disastroso; un posto dove si raggiunge il limite dell’abisso urbano causato da una crescita mostruosa e incontrollabile. Rem Koolhaas è riuscito a combinare entrambe le situazioni, con una fusione che minaccia di mettere a rischio la sua affermata posizione di critico distaccato. L’anno scorso lo scrittore anglo-olandese Ian Buruma domandava in proposito su un giornale londinese: “Che cosa si deve pensare dei famosi architetti che concorrono alla costruzione di una nuova sede della Tv Centrale Cinese? A meno che non si consideri tutto il business cinese come il male – rifletteva – non c’è niente di biasimevole nella costruzione di un’opera a Pechino, o piuttosto di un hotel, di un ospedale, dell’università o persino delle sedi centrali di società: ma la tv di stato è tutt’altra cosa.

La CCTV è la voce del partito, il centro della propaganda dello stato, l’organismo che dice a miliardi di persone cosa pensare”, sottolineando così la brutalità di un regime che combina un capitalismo principiante con la totale proibizione di sindacati indipendenti. “È difficile immaginarsi un tranquillo architetto europeo degli anni Settanta costruire una stazione tv per Pinochet”, concludeva Buruma. Koolhaas sostiene invece che la struttura disegnata per la CCTV, alta 210 metri, con una superficie di 550.000 metri quadri “non è una torre tradizionale, bensì una linea continua di sezioni orizzontali e verticali che definiscono un territorio urbano”. Per la CCTV la costruzione di questo immenso grattacielo senza paragoni al mondo è l’equivalente architettonico del programma spaziale cinese: cioè un considerevole simbolo di successo, anche se vi è sottinteso un messaggio ben più sottile. Accendendo la CCTV si vede una grafica moderna, stile MTV, piuttosto che la rozza propaganda che ci si potrebbe aspettare.

Allo stesso modo un edificio di Koolhaas è una dimostrazione estremamente visibile che lo stato cinese non è più culturalmente arretrato come un vecchio dinosauro. A Pechino Koolhaas è stato certamente molto più pioniere di Albert Speer, figlio dell’architetto preferito di Hitler: che si dà molto da fare per ingraziarsi le autorità cittadine, affinché venga accettato il suo piano che attraversa l’asse urbano da nord a sud per 24 chilometri – con lo stadio olimpico da un capo e l’immensa stazione ferroviaria dall’altro.

Speer diceva: “Cerco sempre di trovare un politico che accetti i miei piani, li guardi e dica ‘questa è la mia idea’, allora funziona”. Lo schema eclissa il lavoro fatto dal padre per Adolf Hitler, il suo asse per Berlino, che sarebbe stato lungo appena 5 chilometri. Ciò che però nessuno ancora capisce è come realmente funzionano le leggi che governano la stupefacente trasformazione di Pechino. L’approccio alla neo-Haussmann di Speer Junior appare quindi irrilevante. La Today Gallery è stata la fabbrica della birra di Pechino, una costruzione in mattoni e cemento degli anni Sessanta, realizzata accanto a una grande curva della traccia elettrica che porta alla stazione ferroviaria centrale.

Abilmente trasformata per la sua nuova destinazione dall’architetto di Pechino Yung Ho Chang, ha aperto in settembre come “Second Hand Reality”, dove viene rappresentato uno show composto da una dozzina di artisti cinesi. Lo spazio principale è un loft alto quattro piani: una specie di versione minore della sala della turbina del Tate Modern Museum. La serata d’apertura della Today non aveva però nulla a che vedere con la mostra personale di Bankside e Pechino non ha ancora nulla di una città occidentale, nonostante l’influenza degli chef australiani, dei sigari e dei McDonald’s. Basta dare un’occhiata ai cuochi che tagliano ancora intestini di pollame, grigio e viscido, sui tavoli approntati fuori dei ristoranti lungo i marciapiedi.

Non appena si riesce a oltrepassare i controlli di sicurezza a guardia dell’impressionante rampa d’accesso alla “Yung Ho”, in rete d’acciaio, si viene confrontati con uno schermo dove scorrono continuamente immagini di un film muto. Donne dell’Esercito di Liberazione, in marcia attraverso le campagne, che respingono la tigre di carta imperialista. Questo è il contrappunto all’evento principale della serata: uno spettacolo di quattro artiste vestite come ballerine di nightclub, in raso e lustrini colorati. Al piano ammezzato riposa tranquillamente, sotto una trapunta a fiori stampati, il ritratto gigantesco in lana di vetro del presidente Mao. “È questa l’ironia?” chiedo a Zhang Xin, una trentacinquenne che l’anno scorso ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, affidando a una dozzina di architetti asiatici (tra i quali Yung Ho) il compito di disegnare una villa per ognuno dei nuovi ricchi cinesi, nel progetto residenziale che lei chiamò “La Comune della Grande Muraglia”.

Prima di ottenere la laurea a Cambridge, Zhang Xin ha lavorato per tre anni alla catena di montaggio di una compagnia elettronica. Esitando mi risponde: “Sai, gli anni di Mao hanno lasciato un segno su tutto”. Passato il Mao dormiente, si apre una porta e si viene subito colpiti dall’acre odore penetrante di pasticceria a buon mercato. L’impianto di Song Dong, “Mangiare la città”, è una gigantesca metropoli fatta di dolci e biscotti disposti su due enormi ripiani, illuminati come tavoli da biliardo. Le torri vacillanti sono wafer e biscottini svizzeri, le piazze sono di liquirizia e cioccolata, mentre scale e fontane sono fatte di cioccolata. I dolci di Song Dong potrebbero però essere la visione più vicina a ciò che la città sta per diventare.

Esiste una commissione pianificatrice del comune, ma le regole che cerca di attuare sono state formulate 40 anni fa da pianificatori sovietici che codificarono il tasso di densità sulla base delle loro esperienze edilizie fatte per gli appartamenti degli operai della Berlino Est. Il dominio necrofilo di questo sistema stantio è attenuato solo dal potere di relazioni e corruzione. Il limite di non oltrepassare l’altezza di 20 piani si traduce misteriosamente in una metamorfosi di edifici alti 30 piani. Raramente c’è chiarezza sulle proprietà dei terreni: in teoria tutte le proprietà fondiarie appartengono allo stato, ma quest’ultimo rilascia poi contratti d’affitto per 70 anni.

Il risultato è un’imprevedibile crescita urbana, tra le più esplosive e disordinate mai viste al mondo, dove lo stato prende ordini da progettisti privati; mentre la Banca Nazionale è priva del potere di arginare i crediti e di bloccare il cammino verso una disastrosa esplosione architettonica. Quest’anno Pechino celebra il suo 850.mo anniversario della fondazione come città imperiale, a guardia dei confini settentrionali della Cina. Costruita come una rappresentazione fisica dell’universo, ha mantenuto essenzialmente il suo carattere nei primi 800 anni della sua esistenza: il palazzo fortificato nel cuore della città, la struttura contenuta entro un mare di case popolari, rigidamente sull’asse nord-sud, gli ‘hutongs’ dai viali troppo stretti per il traffico motorizzato e, cosa insolita, persino il più rudimentale miglioramento delle condizioni igieniche.

Dopo la vittoria comunista del 1949 Mao passò la sua prima notte a Pechino, nella città proibita, con i testi di Confucio a fianco del letto; i suoi predecessori imperiali lo avrebbero apprezzato. Nonostante Mao avesse provato a trasformare la città in un centro della Cina moderna (con l’aiuto degli alleati sovietici), importando nuove industrie, la struttura imperiale cittadina rimase comunque immutata. Il partito studiò una formula per industrie, università, esercito, ospedali e ambasciate, affinché fosse assicurata la minima comunicazione possibile tra tutti. Una fabbrica grande poteva ospitare in un’unica entità autosufficiente fino a 10.000 persone, facendo trascorrere alle famiglie degli operai, con case, scuole e mense, l’intera loro vita all’interno delle mura. La città non aveva tradizioni nel senso occidentale del termine. Le grandi arterie erano state create per le cerimonie e la gente non le usava comunemente, i pedoni non vi erano ammessi: un ricordo di quello che Hitler e Speer avevano fatto a Berlino. Non esisteva uno spazio democratico, aree commerciali o ristoranti. Meno di dieci anni fa sembrava che dopo le 9 di sera chiudesse tutta la città, ritornando all’oscurantismo medievale.

La nuova Pechino si accinge ora a una sistematica distruzione sia dei vecchi ‘hutongs’, sia dei monumenti della trasformazione comunista. Le centrali elettriche e le fabbriche ingegneristiche sono state trasformate in uffici e hotel di lusso. Migliaia di case sono state demolite per creare nuovi quartieri di affari e torri con appartamenti. Alla seconda circonvallazione che delimitava la città fino agli anni Ottanta, ne è seguita una terza, una quarta e una quinta. La sesta è in costruzione. Questi anelli concentrici creano uno strano senso di disorientamento.

Le auto circolano scleroticamente intorno a blocchi disordinati di torri recentemente completate, lasciando il centro vuoto come quello di Detroit: un pannello da tirassegno con dentro l’occhio di bue inanimato della Città Proibita. Una città che fino al 1990 non aveva (né aveva bisogno di) alcun centro commerciale. Ora è un raggruppamento di torri di vetro che sembrano rifiuti di Omaha e Dubai. Quasi per caso nella zona est, dove un lungo viale che taglia l’asse principale nord-sud della città incontra la seconda circonvallazione, sorge ora il centro di un confuso fiorire di grattacieli. Nacquero proprio qui le ambasciate nel momento in cui il quartiere diplomatico fu trasferito dai comunisti fuori dalla “zona del male”, fuori dal centro cittadino.

Quando ci si aprì al mondo esterno, questo diventò il posto giusto per la costruzione di hotel e torri commerciali. Il governo tentò di creare nella parte ovest della città un centro finanziario che facesse da contrappeso, demolendo migliaia di case popolari e facendo posto alla Banca di Cina: un agglomerato di strutture robotiche in fila su due lati. Immediatamente a ovest della piazza Tienanmen migliaia di case popolari sono state rase al suolo per costruire l’Opera Nazionale; Paul Andreu ha disegnato il classico uovo di vetro, contribuendo alla realizzazione degli ampi spazi del centro cittadino, aperti e oppressivi come praterie, e inondando tutt’intorno la zona dell’opera con acqua. La Pechino est è unita a quella ovest da un lunghissimo viale dove le poche pietre miliari conosciute dagli stranieri – l’Hotel Beijing e il Centro Commerciale dell’Amicizia – interrompono la processione di rozzi punti di riferimento, uno più vistoso dell’altro. Non lontano da qui sorge quello che fu il numero uno dell’industria meccanica cinese, la più grande dell’Asia, dove 10.000 persone vissero e faticarono duramente.

Questo scenario cinematografico (usato dalla Banda dei Quattro nell’inutile tentativo di chiamare a raccolta le Guardie Rosse) è stato spazzato via dall’irresistibile intreccio degli abbaglianti grattacieli di Yamamoto. È il più grande progetto fatto finora da Xang Zhin. Un progetto residenziale di 900.000 metri quadri, la cui costruzione, iniziata nel gennaio 2001, sarà finita l’anno prossimo. E pensare che i prestiti bancari, che hanno reso possibile tutto ciò, non esistevano in Cina almeno fino al 1999. Durante il giro nel cantiere, un membro della squadra fa notare lo slogan dipinto su uno degli ultimi capannoni in mattoni che prima dominavano la scenografia del posto: “Lunga Vita al Partito”, vi si legge. La prossima settimana deve esser demolito. “Non possiamo conservarlo, le regole di zona dicono che ogni cosa dev’esser distrutta”.

Ora l’ondata di demolizioni si sta spostando a nord, nella zona per le Olimpiadi del 2008. Viene denominato parco, ma se ci si affretta ad andarlo a vedere si può ancora capire di che si trattava. Fino a poco più di un anno fa questo ‘parco’ era un’affollata zona residenziale, con piccole case grigie, laboratori e negozi. L’area è stata rasa al suolo, come quando gli incendi delle incursioni aeree alleate provocarono la distruzione di Tokyo nel dopoguerra. Pechino è una città in così rapida evoluzione che potrebbe persino veder diminuire la morsa persistente del Partito Comunista, libero da ideologie ma ancora privo di rimorsi. Se ciò sarà vero, allora Koolhaas non è toccato dalla critica di Buruma. Se si è invece meno ottimisti, allora l’insieme dei nuovi punti di riferimento costruiti sarà un giorno uguale al Molo di Shangai del 1949: una crosta di torri smaglianti in perfetto stile art déco dell’età del jazz, distrutte dall’Esercito di Liberazione Popolare.

Decine di migliaia di case a corte sono state demolite, alcune per fare spazio ad alberghi e banche. Nella Pechino nord questa distruzione è stata attuata per far posto al Parco Olimpico
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La società Soho e il suo CEO Xang Zhin hanno accentuato la qualità architettonica nel ritmo frenetico di sviluppo urbano a Pechino
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Le autorità combattono per creare una zona di banche a ovest di piazza Tienanmen e della Città Proibita per contrastare il Centro Direzionale che sorge a est
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Il collegamento principale est-ovest della città è Jianguomennei Daji, che incrocia l’asse nord-sud a piazza Tienanmen. Va rapidamente trasformandosi in una spessa versione della strip di Las Vegas, affollata di edifici che cercano di attirare l’attenzione
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A ovest di Tienanmen, il Teatro Nazionale di Paul Andreu, ora in costruzione, sembra tanto banale come architettura, quanto disastroso in senso urbanistico: è un progetto che crea la piazza più evanescente possibile, allagata d’acqua come a respingere i pedoni più ostinati
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Per realizzare il sogno di un Parco Olimpico, abbellito dallo stadio di Herzog & de Meuron, Pechino ha accelerato il ritmo delle demolizioni nei confini nord della città
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Nuova sede centrale della CCTV, Rem Koolhaas. Due torri ‘appoggiate’ e collegate da ponti sospesi sono il progetto di Koolhaas per la nuova sede della televisione cinese, nel cuore del nuovo centro direzionale di Pechino
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Nuovo terminal aeroportuale, Norman Foster. Foster e Partners concorrono per il progetto di un nuovo terminal che aumenterà la capacità dell’aeroporto di Pechino in occasione delle Olimpiadi
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Centro Nazionale per il Nuoto, PTW Architects. Il progetto vincitore del concorso sorgerà nei pressi dello stadio di Herzog & de Meuron
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Teatro Nazionale, Paul Andreu. Il top dell’architettura ‘antiurbana’: un uovo riflesso in una grande piscina
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Asse Nord-Sud. Speer Jr. tenta, finora inutilmente, di creare un nuovo asse direzionale di 24 km per Pechino
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Il Museo della Rivoluzione di Zhang Kaiji
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Il Museo della Rivoluzione di Zhang Kaiji, e l’Assemblea del Popolo (qui sopra), di Zhang Bo, mostrano due volti diversi dell’architettura cinese, che si confrontano su piazza Tienanmen
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Il colonnato aperto del Museo della Rivoluzione, dotato di una certa inventiva spaziale, suggerisce il tentativo delicato di trovare forme espressive più contemporanee, rispetto alla granitica Assemblea del Popolo
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Assemblea del Popolo
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Questa villa incornicia la natura come un’opera d’arte

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