Vortice mediterraneo

Otto anni dopo aver vinto il concorso per l'ampliamento del Tel Aviv Museum of Art, Preston Scott Cohen apre finalmente al pubblico le porte del suo edificio.

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Questo articolo è stato pubblicato su Domus 951, ottobre 2011

Tel Aviv è calda e inquieta. Sul viale principale, nella polverosa 'città delle tende' allestita dagli studenti in rivolta da luglio, continua a crescere il malcontento. Mi dicono che le marce settimanali contro il governo, a cui nei giorni scorsi hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, non abbiano ancora raggiunto il culmine.

Il Tel Aviv Museum of Art, però, ha già cominciato a recitare un suo ruolo nell'estate della dissidenza. Piazza Rabin, abituale luogo dei raduni di massa, è chiusa per lavori e così, striscioni e casseruole, strumenti del tumulto sociale, sono andati a occupare Shaul Hamelech Boulevard, centro culturale della città. Questo viale è popolato da costruzioni grandiose: l'Opera, una biblioteca, un complesso teatrale e il massiccio museo d'arte brutalista degli anni Settanta, che domina l'intera scena. Dal vasto cortile in cemento riesco a scorgere un angolo del suo luccicante e ingegnoso ampliamento. Sarà questo il nuovo volto dell'arte israeliana?
"La missione del nuovo museo è far conoscere l'arte moderna israeliana, parte del modernismo, ma a modo suo diversa e unica, alla comunità internazionale", afferma Preston Scott Cohen che, nel 2003, si era aggiudicato l'incarico di una nuova ala. "Solo un profondo senso di estraneità avrebbe potuto sradicare l'edificio da un ambito architettonico locale, collocandolo in un contesto internazionale. Volevo, invece, che il progetto mantenesse un carattere inequivocabilmente israeliano". I pallidi pannelli in cemento dell'edificio tassellano le allungate, oblique e perpendicolari superficie piane dei prospetti: ma è stato proprio l'uso del cemento a minacciare il fragile ecosistema e il senso di sé di questa città. "In un primo momento, gli urbanisti hanno vivacemente contestato l'uso del calcestruzzo in facciata", continua Cohen. "La mia idea era quella di oppormi all'attuale inclinazione popolare che tende a importare anche a Tel Aviv il vocabolario di Gerusalemme, fatto di facciate postmoderne in pietra. In Israele, oggi, la finitura in cemento è considerata, infatti, tabù. A molti ricorda un'epoca passata di provincialismo e di indegno pragmatismo o, peggio ancora, le infrastrutture militari".
La collezione del museo aveva, fin dall'inizio, fagocitato l'intero edificio. Il suo ampliamento, programmato da tempo, riservava a questo scopo un'adiacente area triangolare. Il disegno urbano del distretto culturale è stato così alterato per ospitare una nuova struttura, mettendo in relazione tra loro diversi spazi pubblici completamente assolati. "Era una chiave di volta, l'ultima parte della costruzione", dice Cohen. Il suo progetto ha riempito un vuoto nel piano generale dell'area e ha creato un nuovo spazio collettivo demolendo gli elementi deboli, un processo che l'architetto descrive come un "intervento a cuore aperto per la città". In realtà, questa forma stilizzata nasconde un approccio quasi tradizionale alla progettazione museale. La costruzione è formata dalla sovrapposizione e dalla torsione di sei scatole rettilinee (le gallerie) attorno a un atrio centrale. Esse sono, in seguito, ricollegate le une alle altre attraverso una serie di linee verticali oscillanti che, a loro volta, creano una drammatica doppia curvatura. l'intero volume è rivestito con pannelli prefabbricati in calcestruzzo la cui dimensione varia, creando una vivace sequenza e accentuando la prospettiva. Il compito di soddisfare le necessità tecniche del committente (avere una struttura versatile) e l'implicita richiesta di un progetto popolare sono stati riconciliati dall'autore in un agile gesto di diplomazia architettonica espresso dall'incontro tra due concetti: la 'scatola bianca' e l'icona'. Nel momento in cui l'età dell'icona è superata, comunque, la domanda da porsi è se Israele aveva davvero bisogno di questa stravaganza sinuosa per dimostrare il suo impegno nel mondo delle arti? Cohen ritiene che il suo intervento sia più modesto di quanto appaia.
Secondo Cohen, la finitura in cemento è oggi considerata in Israele un tabù. A molti ricorda un’epoca di provincialismo e di indegno pragmatismo
Nonostante l'imponente struttura, l'edificio non è visibile dalla strada. Protetto dalla struttura pre-esistente che lo circonda, comunica soprattutto attraverso appariscenti fusoliere in cemento e meandri interni. Dice Cohen: "In ogni caso, è una situazione unica a Tel Aviv ed emergerà, non tanto per la sua struttura interna, quanto per quella interna". L'accesso principale alla nuova ala passa attraverso il museo ed è dunque difficile distinguerne l'impatto prima di raggiungere il cortile spiraliforme in cemento alto 26 metri: indubbiamente, il nucleo centrale dell'edificio. La temperatura e l'illuminazione delle gallerie sono saldamente sotto controllo e, entrando in questo spazio comune, si avverte una forte attrazione magnetica verso le sue estremità, il desiderio, ancora, di immergersi nella luce diurna, di lasciarsi abbacinare e, naturalmente, indulgere nell'osservare le persone che si muovono negli spazi a zig-zag sopra e sotto. La gettata di calcestruzzo, supervisionata da Amit Nemlich, ha richiesto un anno e mezzo. I pannelli in cemento della facciata sono stati preparati nel ventre della struttura. L'edificio, artefice della propria costruzione, ha ospitato il cantiere. L'assenza di muri verticali nell'atrio e la finitura in cemento sono ben risolti ed eseguiti. Siamo, comunque, in presenza di una struttura a carattere tradizionale, in alcun modo radicale.
È un legame raffinato, elegante, delicato, ingegnoso e attento, che rende omaggio alla materialità della città degli emigrati Bauhaus degli anni Trenta, senza però abbandonarsi alla nostalgia. Il rapporto tra il giardino delle sculture e gli spazi inondati di luce del ristorante interagiscono in modo efficace e il movimento attorno al perimetro e tra le vecchie e le nuove gallerie è omogeneo. Questa costruzione (che prende il nome dai suoi benefattori Paul ed Herta Amir) sarà senza dubbio una delle nuove architetture più ammirate del Paese assieme al Peres Center for Peace di Fuksas a Jaffa e alla facciata di Ron Arad per il Design Museum di Holon, a sud di Tel Aviv. Per molti, comunque, l'obiettivo del museo (connettere il mondo artistico israeliano a quello internazionale) non è credibile. Le mostre del 'vecchio' museo erano, troppo spesso, criticate perché riflettevano la narrazione statale e, raramente, la situazione politica.?Recentemente, il suo consiglio d'amministrazione, composto in larga parte da imprenditori e donatori, ha dovuto, in seguito a un sit-in di protesta, accogliere nel suo comitato un artista. E quattro autori indiani invitati all'esposizione inaugurale Deconstructing India hanno deciso di boicottarlo, rifiutandosi di fare parte di quello che hanno descritto come il 'marchio Israele'.
Il contributo di Preston Scott Cohen, nonostante la sua qualità e la sua eleganza, non riesce a non trasmettere un senso di ricchezza e di prestigio e l'implicito potere a cui si accompagnano queste nozioni. L'edificio interviene modificando e creando uno spazio pubblico e aggiunge una sensazione di novità al grande viale. Eppure, nonostante le proteste, le marce e i sit-in, non ha ancora ottenuto a Tel Aviv lo status di una Tate Modern. I cambiamenti che devono essere fatti per diventare l'istituzione nazionale e accogliente che ambisce a diventare vanno ben al di là della sua qualità architettonica. Beatrice Galilee Critico e curatore

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