Questo articolo è stato pubblicato su Domus 951, ottobre 2011
Tel Aviv è calda e inquieta. Sul viale principale, nella polverosa 'città delle tende' allestita dagli studenti in rivolta da luglio, continua a crescere il malcontento. Mi dicono che le marce settimanali contro il governo, a cui nei giorni scorsi hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, non abbiano ancora raggiunto il culmine.
Il Tel Aviv Museum of Art, però, ha già cominciato a recitare un suo ruolo nell'estate della dissidenza. Piazza Rabin, abituale luogo dei raduni di massa, è chiusa per lavori e così, striscioni e casseruole, strumenti del tumulto sociale, sono andati a occupare Shaul Hamelech Boulevard, centro culturale della città. Questo viale è popolato da costruzioni grandiose: l'Opera, una biblioteca, un complesso teatrale e il massiccio museo d'arte brutalista degli anni Settanta, che domina l'intera scena. Dal vasto cortile in cemento riesco a scorgere un angolo del suo luccicante e ingegnoso ampliamento. Sarà questo il nuovo volto dell'arte israeliana?
Secondo Cohen, la finitura in cemento è oggi considerata in Israele un tabù. A molti ricorda un’epoca di provincialismo e di indegno pragmatismo
