Da grande farò l’industrial designer

Under 40 che hanno preso la strada in salita: disegnare prodotti industriali, in un mondo in cui la manifattura (di qualità) arranca. Alberto Brogliato e Federico Traverso, Leonardo Talarico e Studio Klass raccontano le ragioni della loro scelta e come ritengono si debba affrontare i nuovi scenari aperti dal Coronavirus.

Sembra paradossale. Eppure, nell’era della manifattura che il mondo dice stia scomparendo, annacquata dall’economia dei servizi e delle esperienze, tanti progettisti under 40 scommettono sull’industrial design. Credono nella fabbrica, nell’artigianato tecnico, nel binomio imprenditore-designer. Persino oggi che la pandemia ha bloccato le attività e ha invitato a ridisegnarne le regole. Suona familiare? Lo è. Perché di fatto è il modus operandi delle generazioni che li hanno preceduti. Quello che però è cambiato, e radicalmente, è il mondo della produzione e il mercato che tradizionalmente era quello del design. Vendere il design – cioè il valore aggiunto del progetto – è diventato sempre più difficile da quando la parola è quasi universalmente confusa con decorazione. È vero che, grazie alla comunicazione digitale, farsi notare dalle aziende è più alla portata di tutti, ma convincerle a investire nel proprio talento in erba è quasi impossibile: la maggior parte delle imprese, in lotta per restare a galla o gestite da fondi, quando fanno un investimento giocano sul sicuro, chiamando il nome che, sicuramente, porterà commissioni (meglio se contract).

Brogliato Traverso, QQ, per Guzzini

Lavorare come industrial designer che progetta per l’industria non è quindi solo molto difficile ma anche un rischio: guadagnare abbastanza per sopravvivere con il sistema delle royalty, infatti, è diventato per i giovani ancora più improbabile di quanto già non fosse.

Perché, allora, tanti under 40, cresciuti nel mondo digitale e con uno sguardo globale, bombardati da storie di successo di designer-celebrity – di quelli che fanno interni, accessori di moda, decorazione –, scelgono la via più complicata, meno remunerativa e glamour della professione: l’industrial design?

“In noi è stata una specie di vocazione. Nel senso che ci siamo trovati, professionalmente parlando, grazie alla nostra comune passione per capire come sono fatte le cose”, spiegano Alberto Brogliato (classe 1981) e Federico Traverso (1978), il duo che ha firmato nel 2019 la lampada Lost per Magis (emette luce dalla superficie esterna di un cilindro e si accende mettendo una mano nel foro centrale). Dopo la laurea in architettura allo Iuav di Venezia, i due passano il loro tempo a imparare come si soffia il vetro a Murano, come si lavora la ceramica in Giappone o il legno in Friuli.

“È stato solo allora che abbiamo capito che per noi il design era progetto e non stile, un processo di domande e risposte che porta alla risoluzione dei problemi e a una configurazione del prodotto corretta per il marchio, il produttore, l’utente. Quindi una disciplina che si occupa di tutto il sistema e non soltanto dell’oggetto della manifattura e che per questo si fonda sull’innovazione, sotto qualsiasi forma, e si sviluppa in squadra. Oggi, alla luce dell’esperienza che abbiamo vissuto finora, possiamo dire senza ombra di dubbio che i buoni prodotti si fanno con le aziende, non per le aziende”. È, come si diceva, il famoso “sistema design” all’italiana, che vede imprenditori, tecnici e designer che lavorano insieme allo sviluppo dei progetti.

Leonardo Talarico, Atiha, per Pamono

Una collaborazione in cui il contatto umano ha una parte importante. Il cambio di dinamiche causato dal Coronavirus potrebbe alterarne la natura. “Sono le relazioni, l’empatia creativa, a far decollare i progetti, non ci si può rinunciare”, afferma Federico, convinto che questi elementi non andranno persi nel tessuto produttivo fatto di artigiani e piccoli imprenditori della Pianura Padana in cui le distanze sono limitate e le dimensioni delle imprese ridotte, così da lavorare in velocità e nel rispetto del distanziamento sociale. Chissà che la configurazione della nostra struttura produttiva non si riveli un modello vincente. “Mi auspico cambiamenti su altri fronti, che portino a configurare nuove tipologie di arredi e fare uscire l’home office dallo slogan da ufficio marketing che lo ha connotato finora, oppure a investire davvero nella ricerca di materiali sostenibili e riciclabili”, continua, “anche se credo che il lavoro più sostenibile che si possa fare sia creare oggetti che durino nel tempo”.

Una formula che ci auguriamo regga anche a questo scenario attivato dalla pandemia, ma che certo è in evoluzione. Cosa è cambiato negli ultimi anni? “Tante cose sono cambiate”, racconta Marco Maturo (1985) di Studio Klass. “Ma credo che ci siano tanti rappresentanti della nostra generazione che si trovano più vicini a questa modalità rispetto che ad altre votate allo styling, alla firma, alla collaborazione virtuale e di convenienza”. Lui e il socio, Alessio Roscini (1983), riprendono tematiche e approcci che hanno fatto la storia del design italiano. “Penso al dialogo tra tecnologia e tecnica con forme, materiali e funzioni (come nel lavoro di Alberto Meda), al design che si insinua nelle abitudini e le sostiene, o ne crea di nuove (come nei fratelli Castiglioni), alla capacità di rivoluzionare prodotti e tipologie a piccoli passi, con invenzioni non ‘urlanti’ ma fondamentali (come quelle di Antonio Citterio nel mondo degli imbottiti). Quello che la nostra generazione porta al design industriale di oggi – cavalcando quindi il proprio tempo – è la capacità di mixare tutti questi fattori, ormai necessari per rendere rilevante un progetto in un universo dove c’è già tutto”. È un principio che si ritrova nella loro Touch Down Unit, la postazione di lavoro mobile autonoma per UniFor che ha ottenuto l’iF Design Award quest’anno: a tutti gli effetti un oggetto tecnico (sfrutta un meccanismo a ingranaggi per riconfigurare l’arredo, senza uso di batterie) ma anche molto ‘umano’ nel suo rispondere a nuove modalità di lavoro e di vita (è pensato per dare dignità spaziale ai consulenti aziendali freelance).

La mescolanza di approcci diversi si manifesta in una varietà che Maturo definisce “schizofrenia progettuale”. “Per noi”, precisa, “è normale essere ‘morbidi’ quando disegniamo un tappeto per CC Tapis, rigorosi quando siamo su un tavolo per Fiam e ironici mentre progettiamo uno sgabello per Cantarutti. Quello che conta è la coerenza della modalità di intendere il design, non la forma che prende alla fine. Come su Spotify: si ascolta di tutto ma ognuno ha il suo denominatore personale nelle scelte”.

Studio Klass, Gap, per Ichendorf. Foto Aberto Strada

Questa capacità di adattare l’approccio progettuale a pezzi e contesti differenti è preziosa ora che il nostro modo di vivere e lavorare ha subito lo scossone del Covid-19, con le conseguenti ricadute sui luoghi e gli oggetti che usiamo, oltre che sui comportamenti da adottare. “La prima cosa che si dovrà fare è ripensare gli spazi domestici e di conseguenza i mobili, per poter lavorare e vivere negli stessi spazi”, ribadisce Maturo. “E chissà che l’attenzione che questa pandemia sta facendoci porre sulla precarietà delle risorse a disposizione, sugli effetti dell’inquinamento e del cambiamento climatico non faccia cambiare l’approccio all’acquisto a livello collettivo, che porti a far scegliere prodotti di qualità e ingegnerizzati con criteri di sostenibilità, che poi hanno una vita più lunga, risultando quindi doppiamente sostenibili”. Anche per Studio Klass, il sistema produttivo italiano conferma la propria validità, anche se deve lavorare sul rafforzamento della rete di contatti, condividere meglio le competenze e metterle in circolo, un passaggio importante a maggior ragione ora che cercare materiali e risorse fuori dai propri confini nazionali presenta forti criticità. “È il momento di creare una Cortilia di fornitori di parti meccaniche, elettriche, semilavorati…”, sintetizza con spirito pragmatico.

Un’altra caratteristica della generazione under 40 degli industrial designer nostrani è la spiccata imprenditorialità, il credere in se stessi fin da subito: siti web solo in inglese, studi aperti da giovanissimi, senza la gavetta nelle strutture dei maestri (un obbligo per la generazione precedente).

Studio Klass, Cantarutti, per Sprint. Foto Mattia Balsamini

Rientra in questi canoni anche Leonardo Talarico (classe 1988), che fin dalla tenera età di 23 anni firma per aziende del calibro di Cappellini, MDF Italia e Living Divani, con incursioni nella moda con Tod’s. “Penso che ogni generazione abbia il dovere di far progredire la disciplina e questo si fa mettendosi in gioco in prima persona”, dice. “Perché se la generazione ‘storica’ – Castiglioni, Magistretti, Sottsass – ha dato vita al fenomeno del design italiano e Citterio, Lissoni e Dordoni lo hanno portato nel mondo, a noi spetta fare un passo più in là”. E quale sarebbe questo passo? “Non mi è ancora chiaro, ma per farlo guardo intorno piuttosto che indietro. E vedo che il problema che il design ha oggi è vendere, uscire dal già fatto: come progetti e come metodi di distribuzione. Vedo designer che diventano marchi di successo, che si inseriscono in mondi paralleli (ristorazione, caffè). Il nostro compito, come generazione, è forse quello di trovare un’altra strada che funzioni. Quando lavoriamo per le aziende, noi non possiamo permetterci di progettare e basta, senza tenere conto dei costi, delle difficoltà della manifattura, della prototipazione. Potremmo piangerci addosso, dire che è più difficile, ma io ci vedo come una generazione fortunata: siamo cresciuti senza l’enorme presenza sulle spalle dei grandissimi – come invece è stato per i cinquantenni di oggi – abbiamo molte più chance di essere conosciuti all’estero perché gente come Lissoni, Citterio e Dordoni ci hanno aperto la strada. Non penso che sia un cattivo momento per fare industrial design, purché si lavori su lato etico ed estetico. Cioè sul passaggio dalle ‘cose carine’ a quelle ‘belle’, che nascono per restare con noi per sempre. Oggetti semplici, fuori dalle tendenze, che suscitano attenzione e poi attaccamento grazie a piccoli dettagli inusuali. Non è il ‘facciamolo strano’ del design spazzatura ma l’aggiunta di un senso che – razionalmente o emozionalmente – chi ama la ‘sofisticatezza semplice’ del progetto fatto bene sa cogliere”.

Questa sua visione sugli ingredienti di un progetto corretto non cambia alla luce dell’attualità del virus. “Quello che cambierà saranno i sogni delle persone e le riposte che noi progettisti sapremo dare”, continua. “Bisogna adattarsi ai fenomeni e, anzi, cavalcarli. Poi migliorare la qualità degli oggetti, produrre solo quelli che ci servono davvero servendosi di un’intera filiera che lavori in maniera sostenibile”. Concetti alti, destinati a rimanere nel cassetto delle buone intenzioni? “Bisogna partire dall’analisi delle nuove abitudini che si stanno diffondendo. C’è sicuramente una maggiore attenzione verso l’igiene, ce la porteremo dietro anche quando il virus non sarà più una minaccia: si può fare ricerca in questa direzione, io lo sto già facendo. Si può lavorare sui materiali, sulle finiture – anche solo rivedendo vecchie collezioni con vernici di nuova concezione – e sulla multifunzionalità degli oggetti, accelerando la dimensione home-office che da un po’ è in fase di espansione”. Piccole intuizioni con funzionalità specifiche. Produrre meno, ma meglio. E qui, le strade di tutti questi appassionati under 40 si allineano alla perfezione.

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