Il buon abitare. Pensare le case della modernità
Iñaki Ábalos,
Christian Marinotti, Milano 2009 (pp. 238, € 22,00)
Il discorso sull'abitare da tempo risente di qualche difficoltà.
Sembra in grado di assorbire troppo. Riscrive tutto. Fa propri
cerimoniali e rituali che altri discorsi hanno reso familiari. Tutto
mescolato assieme, con una sovrastima degli aspetti culturali
cui si richiede di sciogliere ciò che risulta difficile da affrontare.
Il libro di Maurizio Vitta intitolato Dell'abitare (Einaudi 2008) è
da questo punto di vista esemplare.
La trascrizione entro un
diverso campo di una forma del discorso ricorrente negli studi
di paesaggio.
A fronte di queste angolazioni bulimiche che
ripropongono vezzi e posture del ragionamento da un campo
all'altro, la ricerca di Iñaki Ábalos sembra ridisegnare una
diversa specificità: sette archetipi di case del Novecento, secolo
in cui, secondo l'autore, gli architetti hanno dedicato al tema
più energie che in passato. L'archetipo è sempre un costrutto,
una riduzione. Per questo non vi sono le grandi opere, scrive
Ábalos: troppo complesse per essere ridotte didatticamente.
Mancano Ville Savoje, la Casa sulla cascata, villa Tugendhat. Vi
sono invece le case a patio di Mies riferite al superuomo nietzschiano;
la capanna di Heidegger che rimanda alla pienezza
dell'essere esistenzialista; l'opposizione tra villa razionalista
e casa urbana nel film Mon Oncle di Jacques Tati, evidente
richiamo all'opposizione tra la fede nel progresso e critica al
positivismo; la villa di Picasso a Cannes, riletta a partire dalla
fenomenologia di Merleau-Ponty. The Factory di Warhol, come
archetipo del loft newyorkese anni Cinquanta, che rimanda
alla critica della famiglia di Marx, Freud e Reich. Ancora, un
insieme eterogeneo (le case di Eisenman e di Graham, la casa
di Buster Keaton in One Week) riferito all'abitare di un ideale
soggetto postumanista. La casa dipinta da David Hockey nel
1967 in A bigger splash i lavori di Alejandro de la Sota e Julius
Shulman, come espressione di un approccio pragmatista classico.
Un repertorio di case immaginarie, a ciascuna delle quali
è attribuito un soggetto e una tradizione filosofica. Le case
sono spesso la sommatoria di esempi diversi. In esse si immagina
una visita. Usando come espediente retorico una pratica
tradizionale nella costruzione del sapere tecnico, quella della
visita a una casa privata. Queste visite guardano a forme,
spazi e materiali, ma esprimono anche specifiche curiosità nei
confronti della figura di immaginari abitanti; evocano probabili
e improbabili figure, richiamano problemi morali e valori.
A partire da quelli compresi nella fondamentale distinzione
tra spazio dell'intimità e spazio dello stare in pubblico, come
avrebbe detto Goffman.
Si possono ovviamente discutere i modi con i quali sono
messi in tensione i rimandi al campo filosofico, la cui sequenza
didascalica ha un po' il sapore dei compendi filosofici liceali, e
alla quale, nondimeno, è affidato il compito di reggere il buon
abitare (che con qualche disinvoltura traduce la buena vida del
titolo originario). Le ambizioni non sono modeste: si tratta di
rispondere, scrive Ábalos, ai numerosi recenti tentativi di rianimare
il dibattito sulla casa basati sull'idealismo sociale e sui
metodi dell'indagine planimetrica. Tentativi ingenui, intrappolati
entro gabbie ideologiche. Dietro la critica si intravede il profilo
delle ricerche degli anni Novanta, rispetto alle quali il libro
vuole prendere distanza adottando una prospettiva diversa,
incrociando altre angolazioni, non rinunciando a viaggiare con
la fantasia ma cercando comunque di porre qualche resistenza
al carattere slabbrato della discussione sull'abitare. Cristina Bianchetti
Fuori dal paesaggio
Sembra in grado di assorbire troppo. (...) la ricerca di Iñaki Ábalos sembra ridisegnare una diversa specificità: sette archetipi di case del Novecento, secolo in cui, secondo l'autore, gli architetti hanno dedicato al tema più energie che in passato
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- Cristina Bianchetti
- 18 novembre 2009