La villa ai tropici

La favola di villa Planchart, originariamente El Cerrito, ce la racconta Antonella Greco, e basta chiudere gli occhi per anticipare con l'immaginazione le ceramiche di Melotti, i colori dell'opera di Morandi, le lacche bianche e nere di Fornasetti...

Gio Ponti. La Villa Planchart a Caracas
A cura di Antonella Greco, Edizioni Kappa, Roma 2008 (pp. 198, € 40,00)

C'era una volta un architetto che parlava di architettura moderna ai tropici, e che per progettare una casa spediva lettere e telegrammi, o parlava lungamente al telefono: "cercando di afferrare una materia impalpabile per trasformarla in arte". La favola di villa Planchart, originariamente El Cerrito, ce la racconta Antonella Greco, e basta chiudere gli occhi per anticipare con l'immaginazione le ceramiche di Melotti, i colori dell'opera di Morandi, le lacche bianche e nere di Fornasetti, piuttosto che gli ingranaggi di una tecnologia ancora ingenua, inventata per fare muovere setti e pareti e permettere allo sguardo di traversare verso ogni dove. Poi Hannia Gomez scrive della signora Anala Braun, e dei suoi ricordi: del marito Armando Planchart Franklin, e dell'amico architetto milanese, che ogni volta che veniva a trovarli, andava poi via con le tasche piene di foglie raccolte in giardino.

Il Gio Ponti, quello che nel '53 gli faceva immaginare che casa loro sarebbe stata "leggiadra come una grande farfalla in cima alla collina". Villa Planchart, appunto, adagiata su una collina di Caracas. Tutto comincia in via Dezza 14, a Milano: è il 1953, e i coniugi Planchart hanno ottenuto, tramite l'ambasciata venezuelana, un appuntamento con Gio Ponti. Sono tutti e tre seduti attorno al tecnigrafo, la luce sfugge tra le persiane e rimbalza sul pavimento, illuminando plastici e modelli, disegni tecnici e schizzi, copie di Domus ovunque, quando Ponti domandò "bene, ditemi che cosa vi aspettate da una casa": domanda meravigliosa, decisiva, intima, che pone il tema dell'abitante come primo e imprescindibile vincolo di progetto. Anala rispose che avrebbe voluto vedere la splendida montagna Avila da ogni lato mentre il signor Planchart chiese che la sua collezione di orchidee, duemila esemplari, potesse essere completamente contenuta tra le mura della casa. Quindi, una casa senza mura, che contenesse delle orchidee e che permettesse di osservare una montagna da ogni angolo: Ponti cominciò a disegnare immediatamente. Mostrò ai coniugi un primo schizzo, una casa bassa con molteplici archi: "non mi piace" disse subito la signora Planchart, "voglio una casa moderna!".

Così, manifestato anche l'ultimo vincolo, adesso si poteva cominciare a progettare. E il secondo schizzo, questa volta tracciato con più attenzione e cura, lascia partire i Planchart consapevoli che stanno per realizzare la casa della loro vita. Da questo momento in poi il progetto diventa poesia, intima relazione tra l'architetto e i committenti, tra cui si instaura un rapporto epistolare, e non solo. Lettere, telegrammi e dispacci capaci di raggiungere i Planchart ovunque: anche sulla nave Stella Polaris, mentre i coniugi stavano raggiungendo Capo Nord. Più di cinquecento comunicazioni che promettevano, anticipavano, raccontavano ogni istante progettuale che attraversava lo studio di via Dezza e la creatività del maestro. E come poesia, l'abitante che entra nella casa viene stordito dal profumo delle orchidee, ancor prima che dall'architettura e dalle opere d'arte in essa contenute. Gli orchideari sono altrove, raggiungibili attraverso un lungo cammino, autentica promenade, mentre le orchidee fiorite sono sistemate ovunque all'interno della casa: in una staffetta continua tra nuova fioritura e appassitura. Ponti ideò delle 'fioriere' e dei "giardini portatili", vassoi metallici che si integravano, e incastravano, nell'impaginato dei pavimenti, rendendo l'elemento floreale parte materica e costruttiva dell'intera casa: vero inno all'arte totale. Violentemente riapriamo gli occhi, e il profumo dei fiori lascia spazio alla realtà raccontata da Fulvio Irace che, nel descrivere Caracas di notte, parla di "una carbonella ardente, scenario da catastrofe atomica che inghiotte l'abitato e conferisce a El Cerrito l'immagine di inaspettato e precario rifiuto dall'urgenza del fuoco". Le favelas hanno divorato la megalopoli, assediando così sparute e precarie zattere di bellezza. La diamantina, altro piccolo gioiello di Ponti, è già stata distrutta: per lasciare spazio alla cieca speculazione. E allora, per respingere l'orrore del presente, è ancora bello chiudere gli occhi e provare a ripensare a quel tempo: in cui l'architettura di una casa era come una storia raccontata in poesia, intenso rapporto tra un architetto milanese e due coniugi venezuelani, illuminati e appassionati di fiori. E che poi, in quella casa, ci vissero per moltissimi anni, felici e contenti.

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