Dopo la fine dell'arte. L'arte contemporanea e il confine della storia
Arthur C. Danto Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 282, € 28,00
Da quando Hegel propose, nelle Lezioni di estetica, la famosa diagnosi relativa alla cosiddetta 'fine' o 'morte' dell'arte non si è smesso di stupirsi tanto della pertinenza di questa analisi quanto della sua inadeguatezza. Si tratta di una previsione catastrofica che apriva la grande serie delle morti e degli omicidi simbolici dell'Ottocento. Presto infatti ad andare incontro a morte sicura non saranno solo l'arte, ma anche - con Max Stirner e con Nietzsche - l'uomo e persino Dio. La cosa più sorprendente in tutto ciò è, a ben vedere, che si aveva a che fare con una serie di diagnosi tanto acute quanto smentite dagli eventi. Dopo l'annuncio della morte dell'arte e di quella di Dio abbiamo infatti assistito - tralasciando l'uomo... - al sorgere di innumerevoli opere d'arte ma anche di moltissime nuove divinità...
Per precisare i termini della questione - quantomeno per quanto riguarda l'arte - ci soccorre un antico maestro, se non dimenticato, troppo confinato oggi in una sorta di pantheon semiletterario. Mi riferisco a Benedetto Croce. Croce aveva affermato che la tesi hegeliana relativa alla cosiddetta "fine dell'arte" sussisteva o cadeva con l'ipotesi secondo la quale l'arte è "manifestazione sensibile dell'idea". L'arte in altri termini si definisce – agli occhi di Hegel - come la forma più alta dell'apparenza sensibile, come quella forma in cui essa esprime la verità. Questa verità - che si rivela per altro storicamente - le viene certificata dalla filosofia. Quest'ultima, per parte sua, una volta riconosciutasi come legittimatrice dell'arte, scopre anche di essere una forma, un modo di esprimersi della verità ben più alto di quello che si affaccia nelle forme dell'apparenza e del sensibile.
Sin qui Hegel e il suo annunzio sulla "fine dell'arte". Ma il Novecento - e veniamo così ad Arthur Danto, e al suo Dopo la fine dell'arte pubblicato in inglese nel 1997 e recentemente comparso in traduzione italiana da Bruno Mondadori – è testimone di una situazione del tutto diversa che coincide anche con una maturazione inaspettata dei motivi hegeliani. Per un verso l'arte non vuole più essere debitrice della filosofia: essa pretende di certificare da sola la propria verità. Non sarà dunque il sapere concettuale - come è avvenuto da Platone sino a Hegel - ad assegnarle il suo statuto. Per altro verso l'arte - e si tratta di un logico passo successivo – rifiuta di presentarsi come apparenza come vorrebbero i filosofi, e pretende di affermarsi come una realtà, una realtà sui generis ma di pari dignità di quella 'vera'. È una vicenda paradossale ma della quale siamo tutti testimoni e interpreti a partire, al più tardi, da Andy Warhol. In Warhol ha preso forma l'estremo di una parabola che va sotto il titolo di un secolo intero: il Novecento. Questo è il secolo nel quale l'arte vuole essere solo se stessa. Essa rinuncia alla propria ispirazione filosofica e vuole realizzarsi solo sulla base dei propri mezzi. Non è più il raggiungimento della perfezione rappresentativa a preoccuparla come scopo ultimo. Per scoprire la sua peculiare natura, al di là di quella che la filosofia le aveva attribuita, l'arte – e qui con la parola arte ci si riferisce alle arti figurative e, in particolare, alla pittura - deve analizzare i propri stessi mezzi. In questo modo - soffermandosi sui propri mezzi espressivi, per esempio la pennellata, come avviene nell'espressionismo astratto di Pollock - la pittura trova la propria realtà. E' questa la tesi di un grande critico come Clement Greenberg. L'arte acquisisce su questa base - aggiungiamo noi - uno statuto autonomo che non le viene assegnato dalla filosofia come era avvenuto in un'amplissima tradizione che culmina con Hegel e inizia- come sopra si diceva- addirittura con Platone.
Ma l'analisi delle componenti espressive dell'opera è a sua volta un momento di un processo di grandissima portata. In quanto l'arte vuole intendere la propria realtà- essa si approssima sempre più alla realtà tout court. Su questa base Danto compie un passo dal punto di vista storiografico del tutto rivoluzionario che è insieme di notevole significato filosofico. In questa discesa dall'ideale al quotidiano, dimensioni fra loro opposte come quelle rappresentate per un lato dall'espressionismo astratto e per l'altro dalla Pop Art e Warhol si delineano come successive e conseguenti. Dal Dripping di Pollock al Brillo Box di Warhol - a proposito del quale è difficile pronunciarsi per dire se sia un oggetto tra gli oggetti del mondo o un'opera d'arte - la distanza non è poi così tanta come un tempo si supponeva. L'opera - emancipatasi dalle maglie della filosofia - tende a presentarsi come una cosa tra le cose, una realtà fra le altre.
Come dobbiamo giudicare questa situazione? Una situazione in cui è estremamente difficile orientarsi e sulla quale un'altra volta Danto apre prospettive molto significative. Si tratta di una condizione, quella postmoderna o post-storica, in cui l'arte può acquisire una libertà inedita, che le era sconosciuta nel momento in cui essa era sottoposta ai compiti che la storia, o meglio la filosofia della storia le aveva assegnato. Si tratta dunque di un'arte che può sperimentare, libera da canoni, molti nuovi cammini. E' un'indicazione teorica di Danto assolutamente preziosa, che è divenuta senz'altro imprescindibile per discernere i caratteri dell'attuale scena artistica. Quest'ultima accompagna tuttavia - e anche questo non va dimenticato - un pluralismo inedito per un'arte che era abituata a rispettare i canoni che le venivano imposti dall'esterno, una sorta di Babele linguistica e formale nella quale non è sempre semplice distinguere il grano dal loglio.
