di Donatella Cacciola

100 jahre Deutscher Werkbund 1907-2007, a cura di Winfried Nerdinger, Prestel, Monaco di Baviera 2007 (pp. 380, € 59,90)

Celebrare un centenario chiedendosi se il festeggiato non sia sopravvissuto a se stesso è piuttosto insolito. Se però si parla del Deutscher Werkbund, la domanda con la quale il curatore chiude l'introduzione non è fuori posto. Chi è ancora in grado di vedere una continuità tra il modello dei "riformatori della qualità della vita" seguito da Svizzera, Austria, Francia, Inghilterra e Svezia e l'organizzazione frammentata di cui molte tracce si sono perse dagli anni Ottanta a oggi?

Cinquanta contributi ripercorrono le tappe fondamentali di cui il Werkbund tedesco è stato protagonista, cornice, utopia, talora etichetta, articolando l'interrogativo intorno alla sua 'vita' o 'morte' (si ricordi qui in particolare Joan Campbell, p. 132-34, conosciuta già in Italia per la sua monografia sul tema). Ne deriva una storia aggiornata di fatti, persone e conflitti, raccontati con sapiente equilibrio e con un'eccezionale distanza critica. Al bando l'enfasi che ancora oggi potrebbe richiamare il Weißenhofsiedlung da poco restaurato, la "Gute Form" e la Scuola di Ulm a quarant'anni dalla sua chiusura: il volume mette in luce un'associazione di artigiani, designer ante litteram, imprenditori e architetti che, negli anni di maggior successo, raggiungeva quasi i duemila soci – come mostra la cronologia in appendice – e come tale è stata quanto più in se stessa eterogenea.

Poco prima della Grande Depressione il Werkbund era l'unica istituzione in grado di organizzare un'esposizione universale che tenesse testa a quella parigina del 1925. Non sorprende, perciò, nonostante il fallimento del progetto "Die neue Zeit", la lotta per il tentativo di sopravvivenza nella Germania degli anni 1934-1938: per un Bauhaus chiuso e consegnato al mito, ecco un Werkbund che fungeva da egida per Gropius e Mies accanto al dissidente Wagenfeld e al (poi) ubbidiente Hermann Gretsch. Se infatti 'riforma' e 'invenzione' (p. 335) – talvolta re-invenzione – sono due termini chiave intorno a cui continua l'esperienza del Werkbund decentrato e disorientato al risveglio postbellico in un Paese diviso, non bisogna dimenticare come la sopravvivenza forzata in cent'anni abbia dovuto fare i conti con mille compromessi. Il terreno sul quale il Werkbund si rifonda non è il leggendario "anno zero": la Gute Form diventa uno strumento di educazione nelle scuole – al limite del paradosso se si pensa che materia didattica fossero le porcellane di Gretsch.

A partire dal 1983 inizia il momento autoreferenziale: il gusto riformatore si scontra con il kitsch prediletto dai consumatori; le mostre, storico cavallo di battaglia, non sono più efficaci quando tutt'intorno sono uno strumento fin troppo inflazionato. Non ci sono eroi solitari in questo libro: sebbene, ad esempio, le aziende costituissero un elemento fondamentale, il volume non indulge a elencarle e descriverle approfonditamente facendone oggetto di digressione. Mentre infatti l'appendice biografica menziona teorici, architetti e designer, i manifesti a tutta pagina di Lucian Berhnard per AEG, Adler e tanti altri sono assai eloquenti. Di contro, a parte il contributo dedicato all'odierna rivista Werk und Zeit, troppo poco emergono le numerose monografie edite dal Werkbund come i Quaderni (Hefte).

A squarciare il velo pacato della narrazione ecco infine in appendice dodici voci off del passato e del presente che, interrogate su quale possa essere il futuro dell'istituzione che oggi ha la sua sede centrale a Monaco, come agli inizi, riaccendono il dibattito. Non è questo un necrologio, e nemmeno è l'unica pubblicazione che quest'anno la Germania dedica all'illustre eminenza grigia, ma si tratta senza dubbio di un libro onesto in grado di avvicinare i più al Deutscher Werkbund, specchio di un secolo, "varius, multiplex, multiformis" (Yourcenar) e che certamente durerà oltre la mostra che ha accompagnato.

Donatella Cacciola Critico d'arte