Oscar Niemeyer Houses, Alan Weintraub, Alan Hess, Rizzoli International, New York 2006 (pp. 232, € 68,30)
Il libro pubblicato da Rizzoli International sulle ville realizzate dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer (1907) si colloca in un segmento di mercato editoriale ibrido: fra una tradizionale monografia d’architettura e un volume dalle immagini accattivanti, che si potrebbe trovare sul tavolino di un salotto non ostile a una certa declinazione della modernità e alle sue forme di divulgazione ingentilita. La prima parte del volume ospita uno scritto di Alan Hess, che sottolinea ripetutamente l’originalità di Niemeyer, senza riuscire però a scardinare le convenzioni – storiografiche, disciplinari, politiche – entro le quali viene involontariamente ricondotta, seppure in termini di una pretesa liminarità, l’attività dell’architetto. Scorrendo il testo emerge subito la difficoltà di separare gli edifici residenziali dal corpus integrale della produzione di Niemeyer, a cui fino a oggi non è stata dedicata nessuna monografia scientificamente esaustiva.
Le soluzioni che il brasiliano mette a punto per le sue ville sono infatti strettamente legate a una ricerca che parallelamente prende corpo nelle opere e nei progetti non residenziali. Anche la committenza – come del resto l’autore non manca di evidenziare – risulta connessa a quella dei lavori più rilevanti. Basti ricordare, per citare un esempio tardo, quello della sede della casa editrice Mondadori a Segrate (1968-75) e della villa Nara Mondadori a Cap Ferrat (1968-72), la cui pool-house campeggia sulla copertina del volume.
Allievo di Lúcio Costa a Rio de Janeiro, Niemeyer collabora con Le Corbusier al progetto del Ministero dell’educazione e della sanità della stessa città (1936-43); nel 1950 Stamo Papadaki gli dedica il primo studio monografico; dal 1957 viene incaricato dei progetti degli edifici pubblici di Brasilia. Dopo il colpo di stato del 1964 l’architetto trova difficoltà a continuare l’attività nel Paese natale e iniziano i frequenti viaggi in Europa. Nella sua lunga attività, tuttora in corso, Niemeyer ha costruito edifici eccezionali. L’esuberanza formale delle sue opere – che scandalizza i custodi dell’ortodossia modernista – cattura l’attenzione di una committenza alla ricerca di un’architettura eccezionale. Il testo di Hess cerca di racchiudere la sequenza cronologica delle ville in un itinerario che porta l’architetto brasiliano da una personale rielaborazione della lezione lecorbusieriana alla ricerca di autonomi canoni espressivi.
Tra questi l’uso di fluidi impianti planimetrici e morbide forme plastiche – evidenti nella villa che Niemeyer realizza per se stesso a Canoas (1953), del resto comuni ad altri architetti brasiliani – per i quali l’autore rimanda, con un (troppo) facile determinismo, alle dolci curve del paesaggio locale e agli edifici del barocco sudamericano. Poco trattato il rapporto tra strutture e forme che risulta invece una delle chiavi di lettura più utili per ripercorrere la genesi dei capolavori di Niemeyer, che non si ritrovano in maniera preponderante tra le residenze unifamiliari. A testimoniare la circolarità della ricerca compositiva alle varie scale progettuali dell’attività di Niemeyer è un progetto non realizzato per una villa a Oslo (2000), che risulta straordinariamente simile al progetto del contestatissimo auditorium di Ravello (2000).
La seconda e più corposa parte del libro è dedicata ad un’ampia documentazione fotografica di una selezione – non sempre felice – delle ville, approntata dalle sgargianti fotografie di Alan Weintraub. La scarsa presenza delle planimetrie degli edifici rende difficile identificare alcuni particolari o ambienti interni. Osservando con attenzione le immagini, si moltiplicano gli interrogativi: emerge infatti una moltitudine di elementi che non hanno trovato riscontro nel testo introduttivo ma che accrescono in maniera ancora più ampia l’orizzonte culturale ed espressivo di Niemeyer. L’opulenza di alcuni interni – determinata dall’arredo predisposto o variato dai committenti – si riflette a volte nel compiacimento dell’immagine fotografica, che appiattisce la percezione degli spazi architettonici nella scontata oleografia di una patinata rivista d’arredamento per ricche signore o aspiranti tali.
In altri casi lo stato fatiscente delle architetture – affascinanti gli scatti della villa per Francisco Pignatari a São Paulo (1953) in rovina – apre la più complessa questione della committenza e del ruolo elitario e simbolico connesso a questi edifici. Se la comprensibile e auspicabile necessità di scegliere una chiave divulgativa per rendere meno ristretto e autoreferenziale lo studio dell’architettura e dei suoi protagonisti può spiegare la scelta editoriale di questo volume, un maggior rigore nella scelta delle opere e delle immagini che le illustrano, oltre a una più accurata predisposizione dei testi, avrebbero sensibilmente migliorato l’opzione, di per sé penalizzante, di occuparsi solo delle ville dell’architetto brasiliano.
Roberto Dulio Architect
