Due libri su Nanda Vigo

di Manolo De GiorgiNanda Vigo. Light is Life, AA.VV., Johan & Levi editore, Milano 2006 (pp. 260, € 48,00)Nanda Vigo. Interni ‘60/’70, Barbara Pastor, Editrice Segesta, Milano 2006 (pp. 184, € 21,00)Dopo un silenzio quasi assoluto escono in contemporanea due libri su Nanda Vigo.

di Manolo De Giorgi

Nanda Vigo. Light is Life, AA.VV., Johan & Levi editore, Milano 2006 (pp. 260, € 48,00)

Nanda Vigo. Interni ‘60/’70, Barbara Pastor, Editrice Segesta, Milano 2006 (pp. 184, € 21,00)

Dopo un silenzio quasi assoluto escono in contemporanea due libri su Nanda Vigo. Il primo (Nanda Vigo. Light is life a cura di Dominique Stella) è complessivo, biografico, ad andamento monografico, e nella sua struttura si distende attraverso le categorie più classiche che appartengono ai progettisti cosiddetti ‘trasversali’ (l’architettura, il design, l’arte). Il secondo (Barbara Pastor, Nanda Vigo. Interni ‘60/’70) è libro volutamente parziale e si occupa di Nanda Vigo come progettista di interni analizzando una mezza dozzina di opere che si collocano tra il 1963 ed il 1980. Dal punto di vista del ‘design’ questi due libri non potrebbero essere più diversi. Anche se li accomuna in copertina il colore viola (Derek Jarman lo considerava il colore più ostico perché ha la frequenza più corta oltre la quale c’è solo l’ultravioletto, ma non è forse la Vigo progettista ostica?) la loro presenza oggettuale differisce profondamente.

Il primo è un oggetto classico, quasi “da tavolo” o da libreria e per il suo formato ‘album’ è destinato ad essere esposto più che manipolato. Il secondo è invece un manualetto da tasca o da borsa appena oltre il paperback (ma nobilitato da una grafica complessa) che sembra indirizzato a dare sostanza al nuovo tema universitario dell’architettura degli interni. Nel primo si tende a ricomporre la figura di una progettista/artista, nel secondo si privilegia la scomposizione delle sue opere. Diverso quindi il cannocchiale ottico da cui essi guardano: il primo esalta le differenze della progettista spingendole sul versante della “vita da artista”; il secondo si assume il rischio di scegliere come punto privilegiato di indagine sulla Vigo quello degli interni.

In un’epoca così avara di interpretazioni è il libro della Pastor ad intrigare maggiormente. Dove andrebbero collocate esperienze radicali come l’Interno Bianco (tutto bianco, 1963), l’Interno Blu (tutto blu, 1971) o l’Interno Nero (tutto nero, 1972)? In quale punto della storia dell’interno italiano? A prima vista sembrerebbero il risultato di una misuratissima combinazione di arte/architettura e design su cui lavora la monografia ‘ricompositiva’ della Stella. In realtà la lettura della Pastor non li fa pendere verso nessuno di questi versanti. Perché l’architettura si risolve in piante abbastanza tradizionali, perché il design del mobile si dissolve in arredi dalle facce specchiate che rimandano ‘osticamente’ indietro la propria immagine, perché l’arte viene delegata ad altri o scelta tra quella degli altri, il lavoro della Vigo evita accuratamente il confronto preferenziale e diretto con ognuna di queste discipline collocandosi in un punto molto speciale.

Pastor parla della “modificazione dello spazio attraverso la luce”, di una luce costruita in modo ‘solido’, della ricerca di “dimensioni amplificate di fenomeni percepiti nella variazione” così come mette l’indice sul pannello come elemento costruttivo fondamentale dei suoi interni, che fascia e si sovrappone all’involucro esistente con grande autonomia. È il ricorso ad uno strumento allestitivo comunque leggero, il più adatto a supportare l’arte senza che l’architettura prevarichi troppo o condizioni troppo la costruzione di un ‘ambiente’. Lo spazio di questa particolare “environmental art” non è certamente lo spazio architettonico: è un suggerimento di spazio che abbassa il tono dell’architettura, lo sovrasta e alla fine lo cancella lasciando nell’aria un senso di precarietà tridimensionale.

È una sorta di lungo allestimento, o di allestimento interminabile che potrete controllare a Malo nella affascinante villa che Giobatta Meneguzzo si fece costruire dalla Vigo nel 1967 su precedente progetto di Ponti apparso in regalo ai lettori di Domus (la casa sotto la foglia). Entrati in un corridoio largo appena 80 cm che planimetricamente potrebbe essere quello di una qualsiasi civile abitazione, la Vigo incassa a filo nella parete rivestita di piastrelle bianche una grande opera di Castellani fatta di punti estroflessi in prospettiva mentre nella parete opposta colloca uno specchio delle stesse dimensioni raccordando il tutto al pavimento con uno zoccolino “a scarpa”. Aperta la porta il giardino viene aspirato in casa dallo specchio mentre il Castellani viene proiettato fuori nel verde: è lo spazio/tempo legato all’apertura di una porta. È un’istantanea che può durare così ormai da quarant’anni solo perché tutti i toni sono stati abbassati (architettura, arte, particolari) lasciando che il punto moderno di un ambiente sia costruito attorno ad una indicibile sospensione.

Manolo De Giorgi, Docente di Architettura degli Interni al Politecnico di Milano

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