di Manuel Orazi

Atlante Terragni. Architetture costruite, Attilio Terragni, Daniel Libeskind, Paolo Rosselli Skira, Ginevra-Milano 2004 (pp. 424, € 75,00)

Ogni opera è un’opera collettiva, ha scritto Enzo Melandri. Anche questo libro dunque è il frutto di autori più numerosi di quelli dichiarati in copertina, primo fra tutti Giuseppe Terragni di cui si pubblicano qui molti scritti inediti tratti dalle relazioni di progetto e dalle lettere. Ciononostante questo atlante delle architetture costruite è soprattutto un libro di fotografia che si basa sul confronto serrato tra le immagini d’epoca scattate da Ico Parisi o dallo stesso Terragni e quelle contemporanee e giustamente a colori di Paolo Rosselli che va dunque considerato come l’artefice principale del volume. Rosselli, così come Gabriele Basilico, è architetto di formazione e, dettaglio non irrilevante, da giovanissimo frequentò lo studio milanese di Ugo Mulas. Una nuova campagna fotografica nel caso di Terragni era più che opportuna e non solo perché nel tempo cambiano tanto gli edifici quanto il loro contesto nonché il modo in cui li si osserva. In maniera paradossale e nonostante la fortuna universale di molte sue architetture, queste fino all’anno del suo centenario, il 2004, erano rimaste supportate soltanto da immagini d’epoca in bianco e nero, alimentando quindi il falso mito di un’architettura candida e totalmente astratta. A questo mito storiografico avevano contribuito in molti, non ultimo Peter Eisenman che sia nei suoi scritti sparsi sia nell’altro grande libro uscito in occasione del centenario, Giuseppe Terragni: scomposizioni, trasformazioni, critiche (Quodlibet, Macerata 2004), ha sempre utilizzato illustrazioni in un rigoroso bianco e nero per sottolinearne l’aspetto concettuale che da sempre è al centro dei suoi studi.

Le fotografie di Paolo Rosselli invece infrangono definitivamente questo mito – in parte già sfatato, documenti alla mano, da Giorgio Ciucci –, restituendo l’intatta varietà cromatica e materiale di quasi tutte le architetture costruite di Terragni. Basta confrontare le immagini contrapposte alle pagine 222 e 223: la celebre foto d’epoca del Novocomum (1929) visto dal lato ovest e quella analoga ma nuova che mostra tutte le tracce di colore sopravvissute agli sciatti restauri del dopoguerra, negli infissi come negli interni. Persino nella Casa del Fascio tornano a essere visibili i tenui colori delle tapparelle, delle pareti in vetrocemento, del marmo di Botticino lucidato delle scale, anche se qui più che altrove è cruciale il ruolo giocato dai riflessi, spesso sovrapposti, che schiudono letteralmente l’edificio verso l’esterno. Sorprendente è anche la fotografia che mostra come Terragni in una parete in vetrocemento di Casa Rustici (1933-36) a Milano si fosse quasi divertito a utilizzare tasselli di vetro che coprissero tutte le gradazioni del blu, dal turchese al blu cobalto (p. 35). Nella Casa del Fascio di Lissone invece è evidenziata la consistenza materiale dell’edificio e l’impiego di almeno cinque tipi di pietre diverse a differenziare le parti della costruzione – la torre littoria scura, la facciata laterale chiara, ecc. – e lo stesso avviene nel Monumento ai caduti nella Prima Guerra Mondiale a Como, dove saltano agli occhi i fossili marini propri della pietra d’Aurisina estratta dal Carso dove riposano i caduti a cui il monumento è dedicato. Analogamente spicca la fitta tessitura del rivestimento della Casa Giuliani Frigerio, in generale così difficile da fotografare, e quella più cruda della pietra dilavata del monumento a Roberto Sarfatti sull’altopiano di Asiago. Se tutto ciò è possibile lo dobbiamo a una precisa scelta di Paolo Rosselli che ha deciso di mettere da parte il grandangolo di cui abusano solitamente i fotografi di architettura per concentrarsi su una resa a distanza ravvicinata, come lui stesso confessa: “Il significato della fotografia è affidato a oggetti, disposti e quasi compressi tra i 3 e i 10 metri”.

Lo stesso Rosselli, nel breve testo finale, la cui lettura consigliamo ben più dello scritto d’occasione di Daniel Libeskind, scrive inoltre che “osservare, come si sa, non è un’azione ingenua” e lo è tanto meno nel momento in cui, come in questo caso, architettura e fotografia interagiscono; “la fotografia guarda, pensa e traduce l’architettura; di conseguenza questa, vedendosi, comincia a trasformarsi”. Risiede proprio qui il senso dell’operazione orchestrata da Attilio Terragni e realizzata da Rosselli: strappare l’architettura del maestro comasco agli stereotipi accumulatisi in un secolo per compiere nuove analisi (Mulas le chiamerebbe verifiche) e comprenderla pienamente. Ma comprensione è traduzione: in altre parole si tratta di una prospettiva che ci invita a rinnovare la nostra percezione di Giuseppe Terragni o meglio, parafrasando Luciano Berio, “a reinventarne il senso, ad accettare l’idea di una storia che ci esplora e ci permette di ritrovarne sempre di nuovo un ricordo al futuro”.

Manuel Orazi Storico dell’architettura