Una prospettiva per la città

di Cristina Bianchetti Sense of the City. An Alternate Approach To Urbanism, Edited by Mirko Zardini, Lars Müller Publishers, Baden – CCA, Montréal 2005 (pp. 352, s.i.p.)Di quale città parla Sense of the City? La domanda potrebbe apparire malposta per due ragioni. La prima è che propone attorno alla parola città una prospettiva unificata. La seconda ragione riguarda il fatto che il volume tratta del nostro posizionarsi a fronte della città piuttosto che della città stessa.

di Cristina Bianchetti

Sense of the City. An Alternate Approach To Urbanism, Edited by Mirko Zardini, Lars Müller Publishers, Baden – CCA, Montréal 2005 (pp. 352, s.i.p.)

Di quale città parla Sense of the City? La domanda potrebbe apparire malposta per due ragioni. La prima è che propone attorno alla parola città una prospettiva unificata, alla quale sembra elegante rinunciare, così come convengono gli studi che, con qualche lievità, declinano sempre al plurale le categorie inerenti il territorio. La seconda ragione, sostanziale, riguarda il fatto che il volume tratta del nostro posizionarsi a fronte della città piuttosto che della città stessa. Il tema (all’interno di una costellazione tematica vasta) è la sostituzione della centralità conferita allo sguardo, con un’esperienza più ampia ed avvolgente, capace di comprendere proprietà tattili, controllo delle temperature, suoni, odori, sensazioni, modi di esperire la luminosità e il cambio di stagioni. Un posizionarsi che non si risolve nell’esperienza immediata, richiede predisposizioni, attitudini, disponibilità a cogliere numerose connessioni. Così la luminosità in ore notturne richiama autorità e sorveglianza; le condizioni atmosferiche richiamano il farsi di un sapere e di una pratica che le elimina semplicemente non occupandosene; i suoni meccanici rendono concreto e materiale il progresso. In tutti i casi, e nonostante il ricorrere del termine in ogni scansione del volume (nocturnal city; seasonal city; sound of the city, surface of the city; air of the city), la città sembra rimanere sullo sfondo. In primo piano ci siamo noi, la nostra capacità di attivare uno spazio conoscitivo complesso, femminile, lunare. Legato ai profumi più che al potere della parola. Una componente ombrosa della conoscenza, un’indagine che si fonda direttamente su situazioni reali, al di là dell’intelligenza. Dunque un ribaltamento di prospettiva: non è la città a dirci dei suoi caratteri, ma sono alcuni aspetti percettivi, sensoriali, olfattivi dell’ambiente urbano a rendere la città visibile. Come fa il tempo, con i corpi.

Nonostante la domanda appaia malposta, e con le cautele avanzate, vorrei insistervi per un poco. La città di cui parla Sense of the City, non è solo quella contemporanea. Il libro propone un percorso che giunge, in alcuni tratti, alla città del XIX e del XX secolo. La città fondata su un’idea di attività intesa come produzione industriale, con tutte le contraddizioni che il nesso comporta e che sono state il modo di essere delle relazioni sociali e delle prospettive politiche della loro risoluzione, come ama ribadire Vittorio Gregotti. Questo fondarsi della città sulla produzione si è sciolto da tempo. E per molte ragioni. Nel pensiero urbano si possono far risalire i primi segni di liquefazione alle ricerche degli anni Sessanta e Settanta (evocate nel libro, fin dalle immagini di apertura), che hanno posto il tema della grande dimensione e dei nuovi immaginari ad essa interrelati. Ma che hanno anche saputo porre a centro un’idea di benessere mentale, fisico e sensoriale in riferimento all’urban environment. La critica sociale di Superstudio, le posizioni di Gordon Matta-Clark, degli Smithson, di Cedric Price e di tutti coloro che oggi vengono spesso richiamati, con una sorta di nostalgia (che si può ben comprendere in un periodo di caduta di qualsiasi atteggiamento contrastivo) per un pensiero che ha preso corpo su issues politiche e sociali assai pregnanti. È lì, forse, che insieme a tante altre cose si è sfaldata l’idea della città come produzione. E della produzione come produzione industriale. Lasciando posto ad altre idee che non sembrano avere la stessa forza: quella di città come scenario del quotidiano, ad esempio, costruita sulle ricerche (anch’esse degli anni Settanta) di De Certeau, Gans o Pettonet. O quella, oggi forse più invadente, di città come paesaggio con i suoi correlati di ecologismo e sostenibilità: alla “city that rise” di Boccioni, scrive Zardini, si è ormai sostituito il “landscape that advances”.

Il libro permette di farsi un’idea della forza che, entro questo insieme mobile di approcci, ha la prospettiva sensoriale. La possibilità di realizzare una città rispettosa di alcune qualità, al pari di come sono ormai i luoghi privati, individuali o collettivi, nei quali molta attenzione è conferita agli aspetti relativi al comfort. Questa prospettiva permette inoltre di riprendere, assemblare e ricucire traiettorie in un certo senso tradizionali. Quelle che guardano alla qualità dello spazio pubblico, da Jane Jacobs in qua (cioè fino agli appelli avanzati – ma poco approfonditi – da Zygmut Baumann, per uno spazio capace di produrre mixofilia). Quelle che riguardano i processi di “messa in salute” dello spazio urbano, e della sua igiene, o lo sviluppo delle tecnologie. Le traiettorie culturali che inseguono il mutare delle preferenze in ordine a temperature, luce, suoni contro l’astrattismo dei principi del benessere moderno. Le ricerche, ormai numerose, nel campo dell’architettura moderna che rifiutano il dogmatismo della visione (Peter Eisenman che scrive “there is too much visual noise, in our environment for me”, ma anche Kengo Kuma, Steven Holl, Jacques Herzog, Gaetano Pesce e alcuni altri).

In modo convincente, il libro richiama questi legami, senza percorrerli. Preferisce organizzare un ragionamento su cinque piani: l’oscurità, il tempo (meteorologico), il suono, la superficie, l’aria. Una scelta dovuta al fatto che il volume nasce come catalogo di un’esposizione organizzata per il Canadian Centre of Architecture (Montréal, 25 ottobre 2005-10 settembre 2006), senza dubbio. Ma non solo. Come già altre volte, Zardini mette in giusta luce qualcosa che è nell’aria. In questo caso organizza una vasta materia attorno ad una domanda circa ciò in cui si sostanzia un approccio alternativo all’urbanistica, come un po’ pomposamente recita il sottotitolo. E questo lo porta, con una lievità che altrimenti il ragionamento non avrebbe, a (farci) ragionare sul modo in cui un tale approccio si palesa: qualcosa che attiene il ‘carattere’ dei luoghi. Predisporlo richiede una speciale expertise. Nel cercare di capire dove questa possa radicarsi, riaffiorano temi cari a Zardini: il pittoresco, la cui invenzione si è ridotta ormai a cosmesi. O la pratica del gardening, resa celebre e teorizzata da Kengo Kuma. Rimangono le domande che il testo pone sulla possibilità di combinare le diverse tradizioni dell’urbanistica moderna con una prospettiva sensoriale, capace di sciogliere, quasi con un senso di liberazione, l’idea di città nell’immagine di un luogo confortevole, conviviale. Liquefacendo, insieme, il suo essere forma di determinate relazioni sociali. Allora che società è quella della quale parla Sense of the City?

Cristina Bianchetti Docente di Urbanistica al Politecnico di Torino

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