di Roberto Dulio
Erich Mendelsohn 1887-1953, A cura di Regina Stephan Electa, Milano 2004 (pp. 312, € 88,00)
La conoscenza dell’opera di Erich Mendelsohn (1887-1953) in Italia è essenzialmente legata alla figura di Bruno Zevi, che a partire dagli anni Cinquanta rimette in discussione il ruolo del maestro tedesco, rileggendone l’itinerario intellettuale e creativo al di fuori di quelle ormai consolidate categorie storiografiche – funzionalismo, razionalismo, International Style – con le quali veniva legittimata l’architettura contemporanea.
Quello che Zevi compie è un vero e proprio ribaltamento che se, come noto, riserva alla figura di Frank Lloyd Wright un ruolo preminente nell’istituzionalizzare il superamento dell’ortodossia modernista, sicuramente trova in Mendelsohn un altrettanto valido paradigma dimostrativo. Come Wright non era riducibile al ruolo di un ‘pioniere’, così Mendelsohn non era inquadrabile come un ambiguo ‘comprimario’ della triade Gropius-Mies-Le Corbusier.
La particolarità dell’architettura di Mendelsohn, e l’esperienza del cosiddetto espressionismo, ne permettevano – sempre secondo Zevi – la sua collocazione alla ribalta del rinnovamento etico e linguistico dell’architettura. Già dalla Storia dell’architettura moderna (Torino 1950), dal pionieristico articolo Erich Mendelsohn 1887-1953 pubblicato in Metron (n. 49-50, 1954), in maniera ancora più evidente nella serie di numeri de L’architettura: cronache e storia dedicati ai disegni di Mendelsohn (nn. 79-108, 1962-64), a quello monografico Erich Mendelsohn: un ismo per un uomo (n. 95, 1963), fino al volume Erich Mendelsohn. Opera Completa (Milano 1970; Torino 1997), risulta evidente il progetto storiografico di Zevi.
Mendelsohn è sottratto da un’immagine canonica della modernità, che ne rendeva marginale il suo ruolo, e viene calato in un racconto, calibrato sulla sua ‘alterità’ e sulla sua appartenenza alla cultura ebraica, che ne esalta gli aspetti fino ad allora trascurati, ma che lo colloca in una altrettanto idealistica – seppure di segno opposto rispetto alla precedente – visione critica.
Nonostante lo stesso Zevi avesse raccolto una serie di materiali documentari di prima mano sull’opera dell’architetto tedesco (principalmente cataloghi e riproduzioni dei disegni insieme a fotografie d’epoca delle opere, spediti dalla moglie di Mendelsohn, Luise, e tuttora conservati nell’archivio dello storico romano) la lettura che ne forniva si basava essenzialmente su una necessaria ma autoreferenziale idea interpretativa. Il libro curato da Regina Stephan – originariamente edito in tedesco col titolo Erich Mendelsohn. Gebautenwelten (Ostfildern-Ruit 1998), poi in inglese (New York 1999) e ora finalmente disponibile in italiano grazie alla traduzione di Electa – rappresenta un successivo ed essenziale passo sullo studio della figura di Mendelsohn.
Frutto del lavoro collettivo di più autori, provenienti da diversi paesi, cerca di riconnettere i diversi momenti e le tante sfaccettature dell’attività dell’architetto tedesco. Il volume è basato su un’attenta ricognizione delle fonti disponibili, e parallelamente ad esso sono stati pubblicati, a cura della stessa Stephan insieme a Ita Heinze-Greenberg due raccolte documentarie mendelsohniane: Erich Mendelsohn. Gedankenwelten (Ostfildern-Ruit 2000), Luise und Erich Mendelsohn. Eine Partnerschaft für die Kunst (Ostfildern-Ruit 2004). L’oscillazione tra la predominanza di una idealistica visione critica, quale poteva essere quella di Zevi, e il riferimento ad un necessario affondo documentario, caratterizza il passaggio, da ‘ieri’ a ‘oggi’, degli studi sulla figura e l’opera di Mendelsohn. E non solo su di esso. Anzi si può affermare che il volume fornisce il presupposto per una riflessione sul ‘fare’ la storia dell’architettura; una pratica che porta spesso a cadere nell’errore di pensare che i documenti possano “parlare da soli”.
Come tutte le fonti, anche quelle documentarie sono interpretabili, necessitano di essere filtrate e soprattutto sono tutt’altro che oggettive, specie le testimonianze dirette dei protagonisti. Il pericolo – dal quale comunque questo volume su Mendelsohn si sottrae in larga misura – è quello di pensare che dalla compilazione dei dati e dall’ordinamento dei documenti, pratiche essenziali per non ricadere nella superficialità, possa scaturire naturalmente la storia. Senza una regia del racconto storico, questo decade in una mera elencazione di date e fatti.
L’equilibrio delle due componenti – idea critica e sostanza documentaria – produce una prospettiva storica. L’attenzione al laboratorio storiografico di Zevi, e quindi alla fortuna critica di Mendelsohn in Italia e oltre, avrebbe forse potuto rendere evidente tali meccanismi anche all’interno della raccolta di saggi compresi nel volume, che liquidano il contributo dello storico romano in poche citazioni, peraltro strumentali a circoscritti giudizi su alcune opere, e qualche nota a piè di pagina. Per il resto gli scritti che si susseguono sulle pagine del libro – oltre che delle stesse Stephan e Heinze-Greenberg, di Charlotte Benton, Kathleen James e Hans R. Morgenthaler – illustrati dalle accurate riproduzioni delle immagini d’epoca dell’opera mendelsohniana, esplorano sotto diversi punti di vista, e con differenti metodologie di ricerca, la formazione dell’architetto, i suoi viaggi, le vicende legate alla costruzione della celeberrima torre di Potsdam a Berlino (1918-21) e delle altre realizzazioni più importanti, l’attività dopo il trasferimento in Inghilterra, Palestina, e Stati Uniti.
Una serie di apparati – biografia, bibliografia, indice dei nomi – conclude il volume, che risulta sicuramente il contributo più aggiornato ed accurato disponibile oggi sulla figura di Mendelsohn.
Roberto Dulio Architetto
La storia di Mendelsohn
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- 28 febbraio 2005