La città di Mollino

di Ettore Bellotti

Carlo Mollino. Interni in piano-sequenza, Manolo De Giorgi, Abitare Segesta Edizioni, Milano 2004 (pp. 168, € 21,00)

Torino è una strana città. Può essere vista come una città grigia fatta di fabbriche e ciminiere. O come una città barocca, ricca di piccole piazze con caffè e pasticcerie che profumano sempre di cioccolato. Molti la pensano come una città chiusa, ripiegata in se stessa, inevitabilmente provinciale, anche se produttiva (negli ultimi anni l’amministrazione pubblica si è molto affannata nel tentativo di trasformarne l’immagine: la vorrebbero, chissà perché, più simile a Barcellona, a Lione). Ma è proprio questo suo carattere, questa sua vocazione, che la rende ideale per essere una città-laboratorio. Un luogo dove si sperimenta e si reinventa (e si esporta) tutto. Il cinema, la moda, il design, le correnti di pensiero filosofico, l’arte d’avanguardia. Spesso, a prevalere, è la regola ferrea dell’understatement torinese (o più banalmente quella del “nemo propheta in patria”), e questo spiegherebbe perché anche un grande come Carlo Mollino, celebrato a New York, a Berlino, a Parigi, ancora oggi nella sua città viene considerato come un’anomalia.

Poche opere sono sopravvissute al lavoro dei bulldozer. Sembra sospetta tutta questa sua fama postuma, o per lo meno irritante, per chi, in tutta fretta e con scarso tornaconto, si è liberato di arredi e suppellettili ereditati, per poi ritrovarli battuti in aste internazionali a cifre iperboliche. Mollino (come quasi tutti i torinesi) amava e odiava Torino. La reputava codina, noiosa, borghese. Ma non ne poteva fare a meno, non la lasciava mai se non per brevi periodi. Da perfetto visionario preferiva reinventarla nei suoi strepitosi progetti di architetture d’interni. Stanze sensuali, sfacciate, del tutto anticonformiste, che dovevano far dimenticare la città-fabbrica seria e severa, o la memoria luttuosa della guerra appena finita.

In questi interni (casa Devalle, casa Minola, il dancing Lutrario) visti in “piano-sequenza” da Manolo De Giorgi, si respira un’altra torinesità, quella degli atelier di alta moda, dei caffè eleganti, come alla Merveilleuse, la più grande sartoria torinese che negli anni Cinquanta occupava un intero stabile di Via Cavour. O da Stratta, da Baratti, piccoli monumenti all’arte pasticcera dove tutto è quaint, vecchiotto, lezioso, un po’ rococò ma molto per bene. Mollino è ispirato da questa quaintness, così come dalle auto veloci, dallo sci, dal volo acrobatico, dall’erotismo che emana un nudo femminile.

Crea un blend unico, molto personale. I suoi interni sembrano set cinematografici, cabine di transatlantici, boudoir. La sua stilematica è ricchissima: specchi, rasi capitonné, velluti, pannelli, paraventi, zanzariere, calchi in gesso, cristalli, arabeschi, cornici, bordure, treillage, fer forgé. Per i francesi e gli americani che guardano estasiati, questo è lo chic del “tourinese baroque”. Mollino è un artista romantico, emotivo, appassionante e appassionato. Un visionario modernista. Torino, attraverso i suoi occhi, diventa più esotica, più latina, più sensuale. Esistono artisti, come ad esempio Fellini per la storia del cinema, dotati di una immaginazione talmente potente che trasformano il sogno in realtà e poi generosamente permettono a noi spettatori di camminare in questa loro visione. Mollino scrive su Stile dell’aprile del 1944: “Devo soggiungere che quasi tutte le cose mi nascono non so mai come; sovente... nascono proprio dal sogno del sonno; poi mi do attorno con massimo scrupolo e intransigenza per farle coincidere con una possibilità empirica costruibile, adoperabile, visibile”.

Come nell’arte anche nel design e nell’architettura convivono Apollo e Dioniso. L’uno non esclude altro, anzi si completano. Apollo è la bellezza pura, l’intellettualità delle forme razionaliste, Mies van der Rohe. Dioniso è il sogno e il sogno di Carlo Mollino è sicuramente un sogno erotico. Ma non c’è nulla di pornografico, di voyeuristico. La sua curva è sensuale ma colta, scattante come la linea di un’auto. I suoi ‘osseomorfi’ sono sinuosi come le gambe di una ballerina, morbidi e voluttuosi come torte alla crema.

Gio Ponti lo elogia spesso su Domus per aver “liricizzato il razionalismo” e “saputo rendere funzionale la poesia”. Più realista e rassegnato comunque ad una certa incomprensione, scriverà nel 1952: “L’artista autentico è sempre bifronte. Viene dalla tradizione, cioè dal gusto contemporaneo, e procede al di là dove il gusto comune non è ancora arrivato”.

Ettore Bellotti Architetto

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