Politiques éditoriales et Architecture “moderne”. L’émergence de nouvelles revues en France et en Italie (1923-1939), Hélène Jannière, Arguments, Paris 2002 (pp. 377, Euro 24,50)
Gio Ponti gli anni di “Stile” 1941-47, Massimo Martignoni, Abitare Segesta, Milano 2002, (pp. 138, Euro 18,00)
Se l’architettura deve essere considerata disciplina eminentemente empirica, si può dire che ad essa occorre ciò nondimeno una base concettuale, un costrutto teorico ed un’essenza informativa. I contenuti riguardanti questo rapporto fra idee e prassi architettonica, sicuramente concernono da vicino il ruolo di una rivista che si muova nell’ambito dello sviluppo dell’architettura contemporanea. Essa, a differenza della rivista tecnica mensile ottocentesca, dibatte punti di vista settoriali di notevole interesse non soltanto per il loro valore storico e rappresentativo ma anche per il loro valore teorico, in quanto illustranti aspetti essenziali circa le condizioni dell’architettura stessa; inoltre fornisce una documentazione abbastanza fedele e un’anticipazione di un clima di opinioni, indica nuove linee direttrici per le arti in genere e per l’architettura in particolare.
In questo senso lavorare sulle riviste significa andare alle origini, risalire alle fonti per individuare motivazioni e finalità, metodi e obiettivi di ricerca teorica, che hanno orientato l’architettura moderna e contemporanea. L’azione avanguardistica degli anni Venti si era infatti espressa attraverso la creazione di riviste. Principali manifestazioni ideologiche del movimento che rappresentavano, strumento efficace per la diffusione di determinate teorie e poetiche, questo tipo di pubblicazioni garantiscono tempestività d’informazione, flessibilità di contenuti e di rappresentazione, immediato riscontro delle polemiche, nonché diffusione più agevole rispetto al libro. La loro stessa struttura, la libertà e l’elasticità dell’impaginazione consentono di inquadrare i testi in una grafica capace di commentarli e di moltiplicarne l’effetto attraverso l’uso di tecniche e schemi tratti dall’avanguardia figurativa, attraverso montaggi e manipolazioni didascaliche e pubblicitarie dell’immagine.
A partire da questi anni esse assimilano le conseguenze della “riproducibilità tecnica” dell’immagine, diventando una produzione autonoma che si affianca e giustappone alla cultura architettonica, alla produzione costruita. Un esempio eclatante è l’Opera completa di Le Corbusier, uno spettacolo coerente di opere in successione, uno spazio di produzione inedito, che non esiste né nelle opere costruite, né nella loro rappresentazione prese separatamente. Le Corbusier aveva intuito le potenzialità delle arti visuali come nuovo contesto di produzione, esistente parallelamente al terreno della costruzione.
In anni recenti, a partire dagli studi svolti da Beatriz Colomina (Privacy and pubblicity: Modern Architecture as a Mass Media, 1994), si è costituito un nuovo indirizzo di ricerca che propone nuove riflessioni sull’architettura contemporanea; riflessioni fondate sullo studio delle riviste, veri e propri documenti d’archivio, con l’intento di proporre una “verità storica” basata su dei fatti dimostrabili. Il testi di Hélène Jannière e di Massimo Martignoni si collocano entro questa nuova congiuntura storiografica. Il primo testo propone uno studio approfondito di quattro riviste (Casabella, Domus, L’Architecture d’aujourd’hui, Cahier d’Art), nel periodo compreso tra le due guerre, offrendo nuovi chiarimenti sulle teorie e sul dibattito del periodo.
La ricerca, su cui si fonda il testo della studiosa francese, ha rivelato diverse possibili letture del Movimento moderno, rimettendo in causa la sua dimensione unitaria, progressiva e lineare; ha evidenziato cioè come questa sua unicità sia una categoria costruita a posteriori. Le politiche editoriali degli anni Trenta dimostrano di non avere la stessa coerenza interna, contraddicono l’unitarietà dichiarata da Pevsner e da Giedion e rivelano diverse strutture narrative. Così l’autrice si propone di riconoscere la differenza fra le catene e le trame dei testi, che costruiscono le diverse teorie del Movimento moderno, l’analisi meticolosa, la comparazione e le riflessioni critiche che rivelano i singoli progetti editoriali, le strategie visuali, le tematiche che a questi sottendono, l’attività critica di protagonisti fondamentali come Jean Badovici, Edoardo Persico, Albert Morancé, Christian Zervos.
Una tale ricerca permette di comprendere le relazioni tra problematiche architettoniche e movimenti politici in rottura con l’assimilazione ingenua del moderno alla democrazia o del totalitarismo con il monumentale; mette in evidenza le strategie degli architetti moderni al di là degli spazi nazionali, la circolazione delle idee, le strategie di persuasione intraprese grazie ai media contemporanei, dalla fotografia alla stampa diffusa. Attraverso l’analisi comparata delle diverse politiche editoriali, il loro grado di autonomia nella scena politica, vengono messe in evidenza le differenze e le distorsioni tra una rivista e l’altra, la scena architettonica costruita, ciò che è nascosto dietro un progetto editoriale, ciò che è esplicito, cosa è sottinteso.
La giustapposizione delle immagini e dei testi, il confronto fra gli edifici, dei riferimenti, degli autori entro questo spazio, fa emergere scene architettoniche che non si sovrappongono alla produzione costruita e all’universo professionale, ma diventano esse stesse costitutive della scena reale. Negli anni Trenta si è ormai concluso il periodo delle riviste-manifesto dell’avanguardia, vettore fondamentale dei nuovi movimenti; la macchina editoriale di autolegittimazione dell’architettura radicale è stata ampiamente ammortizzata; la nuova architettura è ormai un fenomeno dominante: ad una produzione polemica e provocatoria si è sostituito un programma di pubblicazioni che diffondono il panorama architettonico internazionale, il più innovatore.
Queste riviste a differenza di quelle dell’avanguardia non proclamano la rottura, ma affiancano al concetto di ‘moderno’ quello della tradizione. Certe sequenze interne al processo progettuale diventano più leggibili, rivelando il legame tra le tematiche dette ‘moderne’ e la storia. Abbandonata così la retorica del manifesto; i testi e la pratica editoriale mirano a descrivere, mostrare, dettagliare. Se le riviste di avanguardia erano caratterizzate principalmente da un discorso che apparteneva ad un atto di fondazione, le nuove pubblicazioni mirano alla diffusione del moderno.
Le redazioni assumono carattere professionale, sono più strutturate e si differenziano dai periodici professionali nell’idea di intenzionalità e nel riferimento preciso a determinate ideologie (le nuove riviste restano apertamente di tendenza e difendono esplicitamente questo carattere), nella realizzazione del progetto grafico, nella composizione della struttura visuale, nella trama che sottende l’intero progetto, nella scelta di documenti e progetti (sempre e comunque tendenziosa). Confrontando i quattro progetti editoriali l’autrice mette sotto una nuova luce il “gusto del moderno” e la definizione di stile di Domus, che, grazie alla presenza di Ponti, si protrae nel tempo in maniera coerente sviluppando il rapporto tra arte decorativa e architettura; la nuova Casabella di Persico e Pagano, i cambiamenti di politica editoriale, da rivista “per le arti della casa” a rivista professionale di architettura, attraverso la quale la distinzione fra arte e gusto assume aspetti originali e complessi; le posizioni ideologiche più ambigue de L’architecture d’aujourd’hui; il concetto di spazio, nelle diverse sfumature, le genealogie che costruisce a partire dai temi svolti nei Cahier d’Art, dove la quarta dimensione, lo spazio libero, infinito, fluido sono filtrati dagli studi monografici e tematici di Zervos e di Giedion, assumendo chiare derivazioni dalle avanguardie pittoriche e architettoniche.
Su un piano molto differente si pone invece il libro di Massimo Martignoni dedicato alla rivista Stile, che Gio Ponti dirige dal 1941 al 1947. Si tratta di una breve e intensa esperienza, ma che, se presa isolatamente, non basta a comprendere la figura complessa e prodigiosa di un architetto-designer-pittore, capo di un grande ufficio, editore di libri e riviste.
Il volume si presenta come un album, una sorta di diario; una testimonianza originale, purtroppo svolta in maniera frammentaria e quindi non in grado di smentire le critiche di coloro che vedono le opere di Ponti con sospetto, perché (a loro avviso) troppo poco teorico, abile cacciatore di tendenze per uso e consumo della borghesia. Al contrario, se guardiamo i risultati che scaturiscono dalle pagine di Stile, vedremo che esse non sono affatto estranee alle lotte e alle passioni del tempo. Il “grande artista” non appartiene al suo tempo, è il suo tempo. In effetti la sua vita, il complesso delle impressioni, sensazioni, reazioni che costituiscono la materia della sua opera, sono una porzione dell’umanità che lo circonda.
Il libro accenna soltanto, ma non documenta, né dimostra ciò che fu l’impegno di questa rivista di fronte agli urgenti problemi della ricostruzione. Pubblicare soltanto le copertine (peraltro molto belle) di un documento poco conosciuto e praticamente inedito non rende giustizia alla battaglia civile di Ponti, alla sistematica ricerca verso “le case esatte”, tipi edilizi semplificati, essenziali, organismi d’abitazione in cui è possibile trovare il giusto equilibrio tra funzionamento e forme, prese da un vocabolario architettonico ‘moderno’, con l’aiuto di protagonisti dell’architettura contemporanea. Non mette in chiaro che trattare di “Stile di Libera”, Pagano, Mollino e altri non era un fatto superficiale o di gusto, non una vuota squisitezza per i salotti delle signore, ma un serio contributo (uno dei primi) di fronte al problema dell’abitazione nella città reale.
Si potrebbe osare un parallelo con una figura come quella di George Simenon in letteratura, anch’esso guardato con sospetto dalla critica, sottovalutato per molto tempo per l’incredibile successo commerciale e l’impressionante produzione di scritti. Soltanto ora l’opera dello scrittore francese, riletta nella sua interezza, ha rivelato il valore di un grande autore ingiustamente travisato. Sarebbe importante impegnarsi per ristabilire gerarchie, ma non c’è ancora stato un André Gide (grande ammiratore di Simenon), qualcuno capace di studiare a fondo metodo e procedimenti compositivi, di mettere in luce il “segreto tecnico” applicato nei diversi piani, magari un “artigiano vasaio” che come Ponti abbia per anni “impastato il gesso”, implacabile nella programmazione, estremamente consapevole nella costruzione dei progetti, ma anche di grande entusiasmo e abilità.
Luisa Ferro, ricercatrice presso la Fondazione A. Onassis e docente di Composizione architettonica al Politecnico di Milano
