Carlo Scarpa

“Il mediocre non ci interessa, il bello lo conosciamo, andiamo alla ricerca del sublime.”

Carlo Scarpa

Il lavoro di alcuni architetti ha la capacità di ottenere risonanza a livello mondiale nonostante essi operino quasi esclusivamente in un contesto geografico limitato nel corso della loro carriera. Questo è indubbiamente il caso di Carlo Scarpa: al netto di un ridotto numero di progetti realizzati in altre città italiane (Firenze, Bologna, Palermo), la maggior parte della sua produzione architettonica si concentra in Veneto e nelle aree circostanti.

Nato nel 1906 a Venezia, Scarpa studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e inizia a collaborare con alcuni artigiani e con alcuni vetrai di Murano. Nel 1926 ottiene l’abilitazione in Disegno Architettonico e inizia a collaborare con Guido Cirilli all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (all’epoca chiamato Istituto Superiore di Architettura di Venezia), in veste di assistente. Negli anni successivi, la sua carriera si divide tra la realizzazione di arredi e di interni domestici e la collaborazione con la vetreria di Paolo Venini, iniziata nel 1932 e proseguita con la nomina di Scarpa a direttore artistico.

La prima opera architettonica significativa del progettista arriva nel 1935: si tratta di interventi su alcuni edifici dell’Università Ca’ Foscari. Il progetto, che lo stesso Scarpa riprenderà nel 1957 modificandolo ulteriormente, dimostra la grande sensibilità dell’architetto per gli interventi in edifici storici. Con una grande attenzione al rapporto tra i nuovi materiali introdotti e quelli preesistenti nell’edificio del Rettorato e dell’Aula degli Atti Accademici, dà avvio a una serie di ragionamenti che saranno presenti in numerosi progetti della sua carriera: per Scarpa, il progetto sul patrimonio costruito va affrontato con soluzioni che mostrino il gesto contemporaneo ma che allo stesso tempo siano perfettamente calibrate sulle caratteristiche dell’esistente. Attraverso l’uso di giunti che mettono in contrasto materiali diversi, incisioni ed elementi metallici negli arredi fissi (che contrastano con la pietra e il mattone) è in grado di arricchire il linguaggio preesistente dell’edificio con una nuova poetica. 

In seguito, Scarpa riceve l’incarico di rinnovare l’allestimento delle Gallerie dell’Accademia a Venezia e, nello stesso periodo, avvia una collaborazione con la Biennale progettando prima l’allestimento della mostra di Paul Klee (1948) e in seguito il Padiglione del Libro (1952) collocato nei Giardini, che risente fortemente dell’influenza dell’architettura di Frank Lloyd Wright. Il sodalizio con la Biennale prosegue negli anni con altri progetti: il Giardino delle Sculture nel padiglione centrale dei Giardini, caratterizzato da una ricerca formale che mette in evidenza il rapporto tra il ruolo strutturale e la sinuosità dei volumi in calcestruzzo che lo compongono; successivamente, Scarpa progetterà anche il Padiglione del Venezuela della Biennale.

Carlo Scarpa, Giardino delle Sculture, Biennale di Venezia. Foto di Jean-Pierre Dalbéra

Non limitandosi unicamente alla collaborazione con la più nota istituzione culturale veneziana, l’interesse per la museografia e per gli allestimenti è costante nella produzione scarpiana. Tra i progetti più importanti dell’architetto vi sono infatti la Galleria Nazionale della Sicilia in Palazzo Abatellis a Palermo (1953-1954), l’ampliamento della Gipsoteca Canoviana a Possagno (1956-1957), la Fondazione Querini Stampalia (1961-1965) a Venezia e il restauro del museo di Castelvecchio a Verona (1964). Questi progetti sono accomunati da vari elementi che vengono declinati in modo diverso a seconda delle caratteristiche degli ambienti già presenti. Oltre alla già citata attenzione al rapporto tra nuovo e antico, è possibile riscontrare anche l’approfondita ricerca alla scala del dettaglio architettonica degli elementi che compongono l’allestimento.

Per Scarpa l’allestimento è un dialogo – in alcuni casi lineare, ma più spesso fatto di contrasti – tra le opere esposte, il luogo che le ospita e la narrazione curatoriale. Ogni dispositivo spaziale che fa parte dell’allestimento viene studiato nei dettagli e in relazione non solo all’opera da esporre, ma anche alle altre opere presenti nella stessa sala e al contesto architettonico in cui si inserisce: un esempio rilevante è il piedistallo della statua equestre di Cangrande della Scala, che consiste in una mensola di calcestruzzo armato sospesa tramite la quale lo spettatore può osservare la statua inizialmente dal basso e successivamente, seguendo il percorso di visita delineato dal sistema di passerelle metalliche, frontalmente. La statua che sovrasta lo spettatore al suo ingresso nel museo diventa così parte – grazie all’allestimento – della narrazione della storia del luogo.

Carlo Scarpa, Fondazione Querini Stampalia, Venezia. Foto di Paolo Monti

Sebbene i musei e gli allestimenti siano tra le opere più conosciute nell’ambito della produzione scarpiana, non sono certamente gli unici progetti degni di nota. Una serie di interventi (in questo caso prevalentemente costruzioni ex novo) che mostrano temi ricorrenti nelle diverse fasi della carriera dell’architetto sono le ville. La villa veneta, inevitabilmente associata nell’immaginario comune alle abitazioni in contesti rurali che Andrea Palladio realizzava per le nobili famiglie del Cinquecento, vive nel secondo dopoguerra un grande ritorno in scena in particolare grazie all’avvento di una borghesia arricchitasi con attività commerciali e stabilimenti industriali. Tra le ville più importanti ricordiamo Villa Zoppas a Conegliano (1953) e Villa Veritti a Udine (1955-1961), ma il progetto che dimostra in modo più completo le idee di Scarpa su questa tipologia architettonica è Villa Ottolenghi a Bardolino (1974-1978). In questo progetto confluiscono tutti gli elementi che hanno influenzato l’architetto nel corso degli anni: l’attenzione ai materiali – vengono utilizzati infatti ben cinque tipi di pietra diversi provenienti da cave situate in tutta l’Italia –, la rilettura degli elementi tradizionali della città Veneta (riconoscibile nello stretto percorso di accesso all’abitazione, che lo stesso Scarpa paragona a una “calle veneziana”) e allo stesso tempo l’influenza dei maestri contemporanei come Frank Lloyd Wright, chiaramente visibile nel contrasto tra forme curvilinee e rettilinee nella pianta dell’edificio.

In generale, è possibile affermare che gli ultimi venti anni della carriera di Scarpa (1958-1978) siano stati quelli nei quali si sono concentrati i progetti di maggior complessità e raffinatezza formale. Ciò è dovuto non solo alla crescita personale ma anche a un accrescimento della fama del progettista: nel 1956 vince il Premio Nazionale Olivetti per l’architettura – e nello stesso anno l’azienda gli commissiona lo spazio espositivo in Piazza San Marco a Venezia – e da questo momento inizia a lavorare per una committenza che gli concede più risorse e soprattutto più libertà nelle scelte progettuali. Ciò è particolarmente evidente nei suoi progetti più maturi citati in precedenza, come il Museo di Castelvecchio e Villa Ottolenghi, nei quali è espressa pienamente la filosofia progettuale di Scarpa: in entrambi i progetti la varietà di materiali utilizzati, dalla pietra al cemento all’acciaio, e la complessità dei dettagli realizzati indicano che per l’architetto il particolare architettonico è l’elemento generatore della qualità spaziale dell’intero progetto. L’evoluzione dei principi dell’architettura scarpiana raggiunge il culmine con uno dei progetti più noti: la Tomba Brion.

Carlo Scarpa, Tomba Brion. Foto di Jens Kristian Seier

Questo progetto, commissionato nel 1969 da Onorina Tomasin-Brion (moglie del fondatore della Brionvega Giuseppe Brion) per onorare la memoria del marito, consiste in un’estensione del cimitero di San Vito ad Altivole in provincia di Treviso. Le aree verdi, la cappella e lo spazio con i sarcofagi dei due coniugi sono in dialogo tra loro grazie adettagli architettonici comuni ma, allo stesso tempo, ogni elemento spaziale e indipendente offre un diverso contributo al complesso funerario. La semplicità dei materiali usati – cemento a vista, ferro, legno – è bilanciata dalla complessità dei dettagli architettonici che però non rendono il progetto inutilmente monumentale. Il dialogo tra le forme costruite e la natura – che sia la vegetazione o l’acqua – lega tutti gli spazi del progetto.

A partire dal 1969, Scarpa si reca più volte in Giappone; il suo interesse per la cultura di questo paese va oltre l’architettura: secondo la visione del progettista, la società giapponese – che preserva tradizioni e cerimonie immutate da secoli – è un modello di eleganza e di rigore che si rispecchia nei principi spaziali che ha sviluppato nel corso del tempo. L’architettura giapponese, che Scarpa studia sin dagli anni della sua formazione, assegna un ruolo fondamentale al rapporto tra dettaglio architettonico e opera complessiva (in particolar modo nello studio dei nodi strutturali degli edifici in legno) e, soprattutto negli edifici tradizionali, mette spesso al centro il rapporto tra uomo e natura

L’anno in cui termina la costruzione del complesso funerario Brion, ovvero il 1978, è anche l’anno della morte di Scarpa, avvenuta proprio mentre si trovava in Giappone per un viaggio di studio e approfondimento sulla cultura locale. L’architetto viene sepolto in un’area della Tomba Brion, come da sua esplicita richiesta. L’eredità culturale lasciata da Scarpa, che ancora oggi influenza numerose generazioni di architetti, consiste principalmente dalla sua grande abilità di tenere insieme linguaggi e strumenti diversi  sintetizzandoli in una produzione originale e riconoscibile. L’influenza del lavoro con gli artigiani, il valore del disegno come strumento non solo di rappresentazione ma anche di pensiero attivo, le suggestioni legate ai viaggi in Oriente e l’influenza di architetti del passato e contemporanei: questi elementi costituiscono la base della filosofia progettuale scarpiana, secondo cui la qualità di uno spazio è un valore che non va ricercato attraverso la maestosità e la solennità – come avviene in numerosi progetti di Louis Kahn, architetto comunque apprezzato e conosciuto personalmente da Scarpa – ma attraverso la cura per il dettaglio architettonico e la messa in dialogo di elementi diversi: storia e contemporaneità, elementi naturali ed elementi antropici, linguaggi specifici (di un luogo, di una tradizione, di un’epoca) e linguaggi universali.

Dalle parole di Seiichi Shirai (1977):

Carlo Scarpa è senza dubbio uno di quei pochi architetti che, lontano da qualsivoglia concettualizzazione, coltivano un’attitudine quasi istintiva a scavare sempre più a fondo nelle profondità semantiche dello Spazio.
Immagine in apertura:
ritratto di Carlo Scarpa, di Mario De Biasi
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