Vera Sacchetti: Come sei finita in Albania e come è cominciato questo progetto?
Alicia Dobrucka: La prima volta sono andata in Albania per un motivo completamente diverso. Avevo vinto il Sortiri Prize 2011 con il mio progetto "I like you, I like you a lot" ed ero là per presentarlo al Tirana Ekspres Indipendent Cultural Center. In quel periodo conducevo inoltre una ricerca per il mio progetto successivo, "The End of Grey", sulla ritinteggiatura dei grandi edifici nei paesi dell'Europa orientale. In base alle facciate colorate degli edifici viste a Tirana, l'Albania mi sembrava il luogo migliore da cui cominciare. Così, nell'estate del 2011, sono arrivata nella costa sudest del paese. Lì, sulla spiaggia di Drymades, ho incontrato Elian Stefa, fondatore del progetto Concrete Mushrooms (CM). Abbiamo cominciato a parlare di quello che volevo fare in Albania e del fatto che fossi molto attratta dai bunker che avevo visto sulla spiaggia. Erano inconsueti secondo parametri dell'Europa occidentale. Li avrei fotografati comunque, ma quando mi sono avvicinata Concrete Mushrooms il progetto ha assunto una importanza maggiore. L'Albania mi piaceva a tal punto che sono rimasta un mese visitandola in lungo e in largo e fotografando i bunker.

È il progetto che cerca di mappare e documentare i circa 750.000 bunker in Albania, costruiti nel corso di 45 anni di dittatura di Enver Hoxha e ora inutilizzati. Il progetto si propone inoltre di trasformarli, proporne nuovi usi, come trasformarli in luoghi turistici. In questo momento rischiano di scomparire. Il governo ha recentemente approvato una legge che ne incoraggia la distruzione. Così abbiamo cominciato fotografando gli stessi bunker identificati in passato da Concrete Mushrooms e ora a rischio. Nel 2011, un anno dopo la loro localizzazione, molti non esistevano più. L'intenzione sembra quella di liberarsi per primi dei bunker nelle spiagge e nelle città costiere. La necessità di fotografarli nasce dalla concreta possibilità di non trovarli più.
Insomma, non sapere se domani saranno ancora lì rende tanto più importante documentarne l'esistenza?
Esatto.

Siamo partiti dalla costa sudest e abbiamo proseguito all'interno del paese raggiungendo Tirana dirigendoci infine verso Valona. È qui che il progetto Concrete Mushrooms aveva mappato molti bunker ma al nostro arrivo ne erano stati distrutti diversi. Capitava di passare intere giornate a cercarli fin quando ci rendevamo conto che non esistevano più. L'esperienza mi ha insegnato che di frequente è più facile trovare bunker in luoghi inaspettati. Per esempio nel parco nazionale sulla Montagna di Dajti, situato nella parte est della capitale Tirana. Le fotografie in quell'area sono tra le più interessanti. Alcuni di questi bunker erano stati riutilizzati, sopra uno di questi era stato costruito un ristorante. Gli albanesi non sembrano interessati ai bunker, non ne capiscono il valore, forse dipende dall'abitudine alla loro presenza. Capita di frequente viaggiando di vederne, soprattutto in luoghi in cui non è facile fermare l'automobile e fotografarli, magari in cima a una collina. È questa la condizione in cui sono più visibili. In un viaggio in taxi da Pristina a Tirana ho chiesto diverse volte all'autista di fermarsi in strada in modo da poterli fotografare. Ha pensato fossi pazza ma quelle soste non pianificate si sono rivelate molto fruttuose.

Mi ero portata l'attrezzatura perché volevo fotografare Tirana, come avevo fatto con tutte la capitali dei Balcani concentrando la mia attenzione sul social housing. Ho iniziato usando una Hasselblad 6x6 che consente la stampa di negativi di grandi dimensioni. In sostanza avevo con me l'attrezzatura necessaria ad affrontare il progetto Concrete Mushrooms.

Sono indimenticabili, hanno una struttura insolita, diversa dai bunker conosciuti in Europa orientale. Non sono quadrati e monolitici, assomigliano piuttosto a dei funghi con un occhio che ti guarda. Questo li rende misteriosi e invita a chiedersi come possano essere utilizzati a parte l'uso per cui erano stati creati.

Credo di sì. Inoltre le strutture sono di frequente simili, è il paesaggio a cambiare. Volevo inserirli in scenari diversi, dal mare alla montagna, così da comunicare la loro diffusione in tutto il paese. Era impossibile fotografarli tutti e 750.000.

Il mio è in generale un approccio spontaneo. La fotografia funziona in questo modo: avverti l'ispirazione e ti lanci, altrimenti perdi l'attimo e non senti più la stessa attrazione nei confronti di quello che vedi. Quando arrivi in un luogo è importante fotografarlo nei primi giorni, nelle prime settimane, dopo smetti di "vedere" le cose. Per questo non so come mi sentirò quando tornerò in Albania, ma esistono bunker che mi sono rimasti impressi nella mente e mi piacerebbe tornare per terminare il lavoro.

Lo è di fatto, quella che avverto è la classica sensazione del fotografo mai del tutto soddisfatto, l'idea che il progetto non sia del tutto completo. Per quanto riguarda invece il modo in cui questo progetto si concilia con il resto del mio lavoro posso dirti questo. Quando sono arrivata in Albania presentavo il mio lavoro "I like you, I like you a lot". Quel progetto nasceva dalla morte per annegamento di mio fratello nel 2008. Ero tornata a casa [in Polonia] dove avevo fotografato "l'immagine della conseguenza". Era questa l'idea iniziale del progetto che è continuato per circa tre anni durante i quali ho documentato la sua assenza. Come puoi vedere anche in questo caso si trattava di un lavoro molto spontaneo.

Il progetto è stato presentato all'interno della biennale Exd'11/Lisboa Design, nell'acquedotto della città che inizia nel museo dell'acqua. L'acquedotto è davvero lungo, circa 40 chilometri, e va dalle montagne al centro città e quella estensione ha aiutato le persone a capire quanti altri bunker esistono oltre ai 22 mostrati nelle fotografie. Vorrei presentare di nuovo il progetto ma probabilmente non prima di tornare in Albania e consolidarlo. Potrebbe anche funzionare in forma di libro, ma dobbiamo valutarne la fattibilità.


