La lettura utile

Gian Arturo Ferrari, deus ex machina dell’editoria, si racconta nel tempo di un caffè e spiega perché la diffusione della cultura debba salire dal basso e non piovere dall’alto.

“Puntare sulla cultura per uscire dalla crisi del coronavirus? Retorica. Chi lo deve fare? Lo Stato? I privati cittadini? Gli uomini di cultura?”. Ogni volta che parlo con Gian Arturo Ferrari ho la conferma che, nella vita, gli autori che contano sono due, tre al massimo. Nel suo caso, che definire unico è un eufemismo, contano Aristotele e Darwin. Perché questo signore che per 30 anni ha vissuto due vite parallele, professore di storia del pensiero scientifico ed editore, prima di scegliere la seconda diventando il deus ex machina dell’editoria tricolore, continua a leggere il mondo con l’Organon in una tasca e L’origine della specie nell’altra. Una visione armonica e spietata, olimpica e deterministica, incompatibile con l’indulgenza assolutoria e il pressapochismo straccione del costume nazionale. Ascoltare questo ragazzo italiano del 1944, per citare il suo romanzo che corre allo Strega, dalla terrazza razionalista che Giuseppe Terragni pensò per la fidanzata resta un’esperienza straniante. È come trovarsi di fronte ai professori di liceo cui Ferrari si è sentito debitore per la vita. Una prova che, dietro ogni sorriso bonario, cela l’agguato fatale: non essere all’altezza, nemmeno provando ancora a leggere Omero in originale a 50 anni, come capita a me. “La cultura italiana degli anni della mia formazione era molto provinciale, molto ideologizzata. L’elemento chiave era sapere uno da che parte stava, aspetto che derivava dall’eredità del Fascismo”. La sintesi dell’azione di Ferrari, dai primi passi con Edoardo Macorini alla EST Mondadori, poi per un decennio come stretto collaboratore di Paolo Boringhieri, quindi al vertice della Rizzoli per tornare in Mondadori dove dal 1997 al 2009 ha tenuto la leadership strategica e operativa, è stato lo smontaggio di quel carattere ideologico per un’autonomia della cultura in quanto tale. “Un’idea che, all’inizio degli anni Settanta, molti criticavano ferocemente come manifesto del disimpegno. Io invece credevo che la cultura avesse una sua dimensione propria, irriducibile e non determinata dalla politica. Non ero crociano, ma la pensavo così e dunque iniziai a importare molta cultura anglosassone, trasformando lentamente, ma forse inesorabilmente, il carattere della saggistica italiana”. La metamorfosi che Ferrari introdusse si basava però anche su un’idea antipedagogica e antigramsciana che qui potremmo chiamare architettonica. “La diffusione della cultura deve salire dal basso e non piovere dall’alto, perché la sua evoluzione è stata data dalla crescita di generi popolari. Il romanzo alle sue origini non era alto, ma era un genere che si giovò moltissimo di alcuni fenomeni ottocenteschi fondamentali come l’urbanizzazione, il ruolo delle donne e l’istruzione pubblica”. Da questo assunto, la scelta di uscire dalle “conventicole letterarie fatte di relazioni” promuovendo prodotti più laici e più liberi, pensati per un ceto medio concepito all’americana, esatto contrario di quello cosiddetto riflessivo e in realtà accidioso, per troppi anni riferimento della sinistra da cui anche Ferrari veniva. “Volevo fare libri per gente che lavorava tutto il giorno, aveva la famiglia e poi dedicava un’ora alla lettura prima di dormire. Gente che voleva leggere cose intelligenti che la divertissero. Non ho mai creduto, infatti, che esistesse una gerarchia di qualità tra i generi, la qualità è un fatto di singoli individui e di singoli libri. Si può fare letteratura d’evasione che sia di alta qualità e di peso culturale. Vedi le spy story, che nascevano pulpe sono arrivate a capolavori letterari con Le Carré”. Una trasformazione antropologica che non si è arrestata.   “Oggi il paradigma è quello del festival, accolto con grande favore, ma che ha prodotto la diffusione di surrogati del libro. Si costruisce una figura divistica che si espone, fa la sintesi e firma una copia che, una volta tornati a casa, difficilmente si leggerà. Non so se questo modello sopravviverà all’epidemia che impedisce le aggregazioni fisiche, ma negli ultimi anni è stato così”. Anche altre cose sono successe negli ultimi anni in Italia. E ancora una volta Ferrari torna, senza volerlo, al papirologo Adelmo Barigazzi e al logico Ettore Casari, che lo formarono al collegio Ghislieri di Pavia, qualche anno dopo Franco Tatò.

La cosa più importante è che noi italiani non studiamo. La lettura come evasione in Italia ha le proporzioni degli altri Paesi europei. Quello che da noi manca è la lettura utile, di autoformazione, per accrescere il proprio valore umano, civile e anche economico.

“La nostra è una visione antiquata, che divide la vita in pezzi: ci si forma, poi si mette a frutto, si guadagna e, se si è fortunati, si va in pensione (ride). Ma oggi senza formazione non c’è lavoro, non c’è crescita e di sicuro non c’è successo, qualunque cosa sia”. La fine dello studio è un pallino di Ferrari, come quella dell’abitudine alla lettura che si deve imparare da piccoli, altrimenti non s’imparerà più. “Ho letto un libro illuminante, di Luca Ricolfi, che spiega bene le ragioni del declino della società italiana. Fra queste, il declino dell’abitudine allo studio, a partire dalle élite, è una delle ragioni più gravi. Quando mi sono diplomato, il titolo scolastico aveva un significato preciso e un equivalente concreto, misurabile. Nel 1968 fui tra quelli che criticarono quel modello e me ne sono pentito amaramente, perché credo nello studio e nella pubblica istruzione come fattori fondamentali di un Paese dove i principi di merito debbono essere ripresi. Il problema dell’élite è tutto qui”.  Il tramonto sta arrivando e la moglie Elena richiama il professore. “Perché ho scritto un romanzo? Perché ne avevo voglia. Mi è venuto a piacere il fatto di scrivere, l’artigianato della parola. L’ho sempre vista dal lato dei recettori, così ho pensato di farlo per una volta da quello dei produttori. La mia biografia è solo un filtro. Volevo restituire il clima e il senso di quegli anni, dalla fine della guerra fino a prima del cosiddetto boom o miracolo economico, termini che aborro entrambi. Un periodo durissimo, feroce, come la carta vetrata. Diversissimo da quello che è venuto dopo, ma simile a quello che si presenta adesso. Dove c’è bisogno di forza d’animo. Allora c’è stata e spero ci sia ancora”.