Da un lato alcuni settori dell’economia del paese, storicamente floridi, sono entrati in crisi. Il turismo, per esempio, è in picchiata da anni: quello che una volta era considerato un canale privilegiato, ovvero il flusso in entrata dai paesi del Golfo, si è ridotto considerevolmente: dai 500.000 visitatori arabi del 2011 si è passati ai circa 131.000 del 2013. Allo stesso tempo, secondo il Ministero degli Interni, il tasso di micro-criminalità è aumentato del 60% dal 2011, e il 26% della popolazione carceraria libanese è composto da siriani. Non avendo stipulato la Convenzione di Ginevra del 1951, il Libano ha cercato di fronteggiare l’emergenza-profughi con soluzioni ad hoc; fino al 2014, ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini varcavano il confine con la Siria quasi liberamente.
Solo dall’anno scorso il governo libanese ha deciso di intraprendere una strategia di intervento tesa a ridurre progressivamente il numero di profughi nel paese attraverso una serie di limitazioni tecnico-burocratiche (ottenere un permesso di residenza valido per 6 mesi costa 200 $, e rinnovarlo è diventato molto costoso), e militari (presidiare i varchi frontalieri, incoraggiare il ritorno in patria dei profughi). Da un punto di vista meramente economico, è pressoché impossibile quantificare il contributo fornito da tale fenomeno migratorio alle casse dello stato libanese: una volta arrivati in Libano, generalmente i rifugiati sono confinati nell’ambito del lavoro sottopagato e sfruttato, specialmente nei campi dell’agricoltura e delle costruzioni.
Dottori, avvocati, e più in generale laureati, non sono autorizzati a esercitare la loro professione nel paese dei cedri, e progressivamente si vedono costretti a scivolare nella selva oscura del precariato. Ma è anche vero che, contrariamente a ogni luogo comune o stereotipo, quasi l’80% dei siriani arrivati in Libano paga un regolare affitto, con una media di circa 200 $ al mese. Si stima quindi che, solo per l’affitto di case e appartamenti, l’apporto fornito dai cittadini siriani all’economia libanese è pari a circa 32 milioni di dollari mensili.
In questa condizione d’instabilità permanente, casa, scuola e sanità sono diventati il campo di battaglia di politiche sovrapposte e a volte convergenti: organismi internazionali, organizzazioni non governative e i principali gruppi religiosi del paese lavorano allo stesso tempo su proposte e soluzioni diverse, tese il più delle volte al raggiungimento di mutui interessi particolaristici.
L’emergenza sanitaria rimane una questione centrale, visto il constante aumento di casi di malnutrizione: l’anno scorso il World Food Program ha tagliato del 30% i fondi di assistenza ai profughi siriani residenti in Libano, rendendo ancora più critica la situazione di molti cittadini.
Quanto alle politiche scolastiche, il governo libanese ha da poco lanciato un programma basato sulla progressiva inclusione dei giovani rifugiati all’interno del sistema pubblico. Nonostante gli sforzi fatti in questa direzione, circa il 70 % di bambini siriani sarà incapace di frequentare una scuola pubblica in Libano a causa della mancanza di spazi, di rette scolastiche troppo alte, e di infrastrutture carenti.
Ma la vera grande questione, che la crisi migratoria siriana ha semplicemente reso manifesta e che coinvolge anche i settori più svantaggiati della popolazione libanese, riguarda la necessità di definire una nuova politica abitativa: reperire alloggi capaci di ospitare migliaia di persone in tutto il paese, rifiutando la logica del campo profughi già sperimentata in passato durante l’esodo palestinese. I profughi siriani infatti hanno colonizzato il territorio libanese in maniera estesa e frammentata: vivono in circa 1.700 località diverse, specialmente nelle zone più povere del paese, a nord, sud e nella valle della Beqaa.
Del milione di rifugiati arrivati in Libano negli ultimi tempi, circa 300.000 risiedono ufficialmente a Beirut. Molti hanno trovato ospitalità in insediamenti informali alle porte della città; altri hanno occupato la zona sud, da sempre roccaforte sciita di Hezbollah; altri ancora hanno trovato riparo presso i famosi campi palestinesi, oramai perfettamente integrati nel tessuto stratificato della capitale. È il caso del campo di Shatila, originariamente costruito nel 1949 per ospitare profughi provenienti da villaggi del nord della Palestina e teatro della famosa carneficina operata dalle falangi cristiane nel 1982 con il supporto delle truppe israeliane.
La popolazione del campo profughi, originariamente stimata attorno alle 10.000 unità, è oggi salita a 22.000, per via della massiccia presenza siriana. Altro esempio è Haret Hreik, municipalità di fatto controllata da Hezbollah, e tradizionalmente rifugio dei settori più marginalizzati della società libanese. Ricostruita dopo la guerra del 2006, è uno dei nodi di arrivo-partenza per molti siriani.
La pressione migratoria siriana sulla capitale libanese ha quindi prodotto due effetti evidenti, dalla natura diversa e non direttamente interconnessa: da un lato ha posto in evidenza la necessità di ripensare una politica di alloggi a basso prezzo, capace di accogliere e offrire riparo a migliaia di persone. Dall’altro lato, come reazione delle classi più agiate all’invasione di spazi e aree una volta considerate “off-limits”, si assiste alla progressiva militarizzazione degli spazi privati e di rappresentanza, e alla contemporanea privatizzazione degli spazi pubblici urbani.
Un processo, questo, iniziato già negli anni ’90 con la ricostruzione del centro di Beirut (Downtown), affidata a una società privata (Solidere) il cui fondatore Rafik Hariri è stato in seguito primo ministro. Attraverso una serie di escamotage formali, vizi procedurali, e anomale concessioni politiche, Solidere ha gestito l’intero processo di trasformazione del centro di Beirut (basti pensare che durante la Guerra Civile che ha segnato la storia libanese dal 1975 al 1990 circa l’80 % degli edifici del centro è stato seriamente danneggiato).
Esempio quasi unico di politiche urbane neo-liberiste tese allo smantellamento di qualsiasi forma di controllo pubblico sulla modificazione del territorio, Downtown-Solidere è la faccia iper-militarizzata del capitalismo medio-orientale, finanziato da capitali provenienti in gran parte dall’Arabia Saudita, e foraggiato da progetti di architetti internazionali.
A oggi il processo di ricostruzione del centro di Beirut non è ancora ultimato, ma Solidere ha un fatturato annuo che raggiunge quasi il 25% del PIL libanese.
Com’è facile intuire, in regioni così complesse e instabili dal punto di vista geo-politico la pianificazione urbana non è mai un’attività neutra e innocente, ma sottende ed esprime da sempre le tensioni sociali e religiose che colpiscono la città.
Beirut è poi storicamente luogo di conflitti, micro-guerre locali e globali i cui effetti si sono immediatamente tradotti fisicamente in confini, muri, linee di separazione e disconnessione. Dimenticare questa condizione di eccezionalità significherebbe trascurare un aspetto importante della vita della città, fatta di violenza urbana, militarizzazione del territorio, frammentazione e ridistribuzione di intere aree secondo i vari gruppi di influenza. L’originaria separazione di Beirut in due settori durante la guerra, uno prevalentemente cristiano (East Beirut), e uno musulmano (West Beirut), persiste ancora oggi in maniera latente.
A questa geografia multipolare si sovrappone la zona sud della città, completamente controllata da Hezbollah, e una serie di frammenti urbani, colonizzati da rifugiati e minoranze etniche nel corso del tempo (vedi i gruppi sciiti che si sono trasferiti dal sud del Paese durante la guerra). In quest’ottica si può inquadrare il progressivo processo di privatizzazione di gran parte degli spazi collettivi della città. Oltre al già citato caso di Solidere, sono altrettanto eclatanti i tentativi perpetrati negli ultimi anni in tutto il paese: recente è il caso del porto di Daliyeh e delle sue famose rocce, un’area usata da decenni per pic-nic ed escursioni familiari, rifugio di pescatori e working-class heroes, e adesso recintata, chiusa al pubblico e in procinto di trasformarsi in un resort di lusso progettato da OMA / Rem Koolhaas.
Secondo la stessa logica, quasi 220 km di costa, e circa 2,5 milioni di metri quadrati sono stati gradualmente privatizzati, grazie alla costruzione di resort o strutture alberghiere direttamente o indirettamente legate a figure politiche locali.
Davanti a questo modello di gestione della cosa pubblica, una nuova generazione di studenti e cittadini ha espresso il proprio malcontento e dichiarato la necessità di costruire spazi alternativi di dibattito e discussione: come le recenti manifestazioni di massa di quest’estate hanno dimostrato (tenutesi nel cuore di Downtown, per ironia della sorte), il Libano è davanti a un bivio. E paradossalmente la crisi siriana può fornire una serie di spunti per un nuovo modello di coesistenza e condivisione.
Stefano Corbo (1981) è un architetto residente a Beirut da qualche mese, dove è Visiting Professor in Architettura presso l’Università Americana del Libano (LAU). Ha collaborato con diverse riviste ed è stato docente ospite presso ETSAM, University of Miami e University of Wisconsin.