Tic Toc Tic Toc Tic Toc.
Inizia così After the Hunt, l’ultimo film di Luca Guadagnino. Con l’incessante ticchettio di un metronomo a fare da sfondo sonoro all’atmosfera ovattata della Yale University in Connecticut.
La spietata constatazione dello scorrere del tempo, o della sua sospensione, nel quadro delle vicende che vedono coinvolti i tre protagonisti della storia: Alma Himoff, docente di Filosofia a Yale in procinto di ottenere l’agognata cattedra, Hank Gibson, il giovane e ambizioso assistente, e Maggie Price, la dottoranda dall’aura impenetrabile, divisa fra realtà e finzione, fra politically correct e girlsplaining.
Di per sé la narrazione degli accadimenti che legano i personaggi in una relazione ben oltre i limiti del tossico, estremizza l’ipocrisia e le ambiguità che circolano fra i corridoi e le aule dell’universo accademico: smanie di potere e successo, storie di autodeterminazione, di rivalsa e asservimento, mettendo a nudo dinamiche del tutto analoghe a quelle che scandiscono l’andamento della società contemporanea, oggi più che mai piegata dall’incapacità di risolvere i contrasti generazionali.
Se in architettura il compito è quello di riuscire a dar forma ai desideri del cliente, nel cinema (...) gli spazi divengono vere e proprie estensioni dei personaggi.
Stefano Baisi
Sono in larga misura gli spazi a inscenare efficacemente le trame psicologiche ed emotive dell’intero film, sapientemente immaginati da Stefano Baisi, scenografo alla sua seconda collaborazione – dopo Queer (2024) – col regista palermitano, a cui abbiamo chiesto di raccontarci il backstage di After the Hunt, e il modo in cui ha elaborato la sua personale transizione dall’architettura e l’interior design al cinema.
“Se in architettura il compito è quello di riuscire a dar forma ai desideri del cliente”, spiega Baisi, “nel cinema gli spazi creati ad hoc sono a servizio di una storia, dei personaggi”. Non c’è quindi “una ricerca del bello fine a se stesso”, ma tutta la costruzione spaziale ruota intorno al rapporto coi personaggi, alla loro psicologia: “gli spazi divengono vere e proprie estensioni dei personaggi”.
La prima grande distinzione che raggiunge lo spettatore a proposito della costruzione spaziale dei luoghi di After the Hunt riguarda il contrasto fra la dimensione pubblica e quella privata, la socialità e l’intimità, le apparenze e la messa a nudo dei sentimenti più fragili e sinceri.
Questo accade per esempio nella casa di Alma, che vive insieme al marito Frederick, psicanalista, ossessionato melomane, in una dimora che rappresenta perfettamente la borghesia intellettuale della East Coast americana. Ciò che l’immediatezza della restituzione cinematografica delle immagini non svela ce lo racconta ancora Baisi, spiegando come l’intera scenografia dell’appartamento di Alma e Frederick sia stata interamente costruita in teatro dall’altra parte dell’oceano, negli Shepperton Studios di Londra.
“Per plasmare lo spazio della dimora di Alma e Frederick in modo da rispecchiare perfettamente i personaggi e la complessità della loro relazione con gli spazi, necessitavamo di una forte orizzontalità e profondità di campo per la loro narrazione”, spiega lo scenografo.
Così si è deciso di cercare ispirazione negli esempi tipici delle architetture della East Coast, principalmente newyorkesi, e dell’Upper West Side, come il Langham Building, o il Dakota Building – l’edificio celebre per essere stato anche l’ultima casa di John Lennon.
Lo status dei due padroni di casa trasuda in ogni dove: nei divani dalle tappezzerie floreali che rievocano i famosissimi disegni di William Morris, e su cui Hank e Alma siedono in posture la cui informalità tutto lascia intendere tranne che i due possano essere stimati colleghi accademici, nelle sedie e divanetti in legno dalle linee Arts & Crafts, che ancora richiamano all’opera di Charles Rennie Mackintosh o più facilmente ai pezzi d’arredo che Frank Lloyd Wright realizza per le sue case americane più iconiche.
Baisi racconta come la costruzione dell’appartamento sia avvenuta attraverso l’immaginazione di una serie di “stratificazioni di vita”, tre layer generazionali nello specifico, dai nonni ai genitori di Frederick, i primi emigrati dall’Europa verso l’America con l’insorgere del nazifascismo, i secondi vissuti idealmente in quel contesto americano della presidenza Kennedy, fino agli stessi Alma e Frederick.
Da qui la commistione delle correnti artistiche del primo Novecento europeo, dalla Wiener Werkstätte al Bauhaus, dell’influenza estetica dell’America dei primi anni 60, fino alla presenza di oggetti d’arte di origine etnica, africana o haitiana, tracce della vita della coppia, dei loro viaggi: “trecento metri quadri interamente artificiali e di cui ogni cassetto è stato davvero riempito” la cui piena credibilità funziona proprio per via di questo ingegno inventivo.
Eppure, è proprio nella dimora padronale della professoressa Himoff che i dialoghi più significativi avvengono spesso in angoli riparati, più intimi e discreti, quasi nascosti, proprio a voler suggerire la segretezze dei disvelamenti fra i vari personaggi, fin dal principio, quando a conclusione della grande “cena accademica” Alma scruta dallo spioncino Maggie e Hank sostare un istante nel pianerottolo, prima di entrare in ascensore e andare via verso la notte in cui si consumerà lo scandalo. Scandalo che verrà anch’esso confidato da Maggie ad Alma in un altro spazio liminale, l’androne, poi la tromba delle scale, quasi nell’intento di tenere lo scabroso segreto fuori dalle mura di casa di Alma e della sua intimità.
E poi Alma, che si confida col marito nel suo studiolo di psicanalista, lei sdraiata nel divanetto a righe bianche e nere sopra il quale si distinguono appese due opere di Josef Albers, lui che le massaggia benevolo le gambe.
E ancora Alma e Maggie che analizzano l’accaduto in cucina, a metà fra la confessione e la dissertazione accademica, tesi e controtesi, fra le interferenze dello stesso Frederick che in un continuo entra ed esci intenzionalmente disturbante, apre la porta “va e vieni” inondando lo spazio di assordante musica che rende a tratti impossibile la concentrazione delle due donne.
Tic Toc Tic Toc Tic Toc.
A fare da contraltare alla casa cittadina è dunque la casa sul molo, “the Wharf” la chiama Alma, un rifugio che nella sua essenzialità inscena l’autenticità emotiva della protagonista, un “luogo mentale prima che fisico”, come la definisce Baisi. Disordinata, trasandata, ma proprio per via di questi attributi ai limiti dell’accettazione sociale che si confarebbe alla stimata docente di Yale, reale. Qui Alma si lascia andare, fuma, beve, dorme per delle ore consecutive, e si ritrova in preda alle sue angosce. E proprio qui Alma un giorno si imbatte inaspettatamente in Hank l’assistente, che si è introdotto nella casa sul molo grazie a un vecchio mazzo di chiavi mai restituito, esattamente con gli stessi intenti di Alma: isolarsi dal caos delle voci, dei pettegolezzi che lo hanno già tagliato fuori dalla stessa Yale, mandando a monte qualsiasi prospettiva di carriera. Alla casa sul molo tutto ciò che è socialmente inammissibile può restare torbidamente al sicuro.
“È una casa utile, non per questo meno sofisticata, ma estremamente funzionale alla possibilità di sentirsi al sicuro”, spiega Stefano Baisi, “oltre che volutamente pensata per appartenere geograficamente all’altra faccia di New Haven, dove i landmarks principali sono le ciminiere e gli edifici industriali”: questa casa definisce “una sorta di amplificazione della distanza fra le due anime della protagonista”.
E poi c’è Yale. E suoi luoghi e le sue atmosfere iconiche. Di nuovo integralmente ricostruiti.
Fra stereotipo e verità, l’università non è un semplice sfondo ma, al contrario di quello che quantomeno imporrebbe l’etica istituzionale, si rivela il luogo più ostile per i tre protagonisti, ciclicamente sottoposti alla gogna pubblica, proprio la dove la loro reputazione dovrebbe restare inviolata.
After the Hunt racconta una storia dove ognuno dei soggetti coinvolti può avere drammaticamente torto, e l’istante immediatamente successivo incredibilmente ragione, in cui il beneficio del dubbio non è concesso, ma si fa piuttosto complice degli istinti più conservatori e retrogradi della società, e dove i luoghi fisici, gli spazi, non sono solo testimoni degli accadimenti umani, ma ne prendono parte, si schierano con un linguaggio espressivo preciso, rappresentano ciò che sono, e quanto la società pretende da essi. Solenni anche nella loro immoralità, fermi e immutabili, anche quando lo scandalo sarà passato.
Tic Toc Tic Toc Tic Toc.
Immagine di apertura: Luca Guadagnimo, After the Hunt, 2025, Concept Art Stefano Baisi. ©Amazon MGM Studios.
