Decolonizzazione, decarbonizzazione e futuro: come sarà la Biennale 2023

La mostra partirà mettendo al centro l’Africa e la diaspora africana per capire come la pratica progettuale può essere “agente di cambiamento”, spiega la curatrice Lesley Lokko.

Decolonizzazione, decarbonizzazione, presente e futuro di una pratica sempre meno confinata: Lesley Lokko ha presentato così la Biennale 2023 da lei curata, oggi in conferenza con il presidente Roberto Cicutto, nella sede veneziana di Ca’ Giustinian. 

Ancora una volta, e ancora di più l’architettura è chiamata non tanto a produrre forme quanto a dare risposte ad imperativi, richieste urgenti della Terra e di quante forme di vita la abitano, ha sottolineato Cicutto, ed è in queste urgenze che il progetto di Lokko va ad inserirsi, tanto che è la stessa curatrice la prima a definire i partecipanti come practitioners più che architetti, per sottolineare la priorità di “un agire concreto e necessario”.

Mariam Issoufou Kamara, HIKMA, 2018. Courtesy atelier masomi. Foto di James Wang

Nel processo di costruzione della mostra, come Lokko ha dichiarato, tante domande si sono sovrapposte, ma due sono rimaste in cima alla lista, cioè cosa significhi essere “un agente di cambiamento”, e se esposizioni di questa portata, oggi, possano essere giustificate. 

In questa riflessione, l’attenzione si è concentrata sul tratto che distingue una mostra di architettura dalle mostre d’arte di cui eredita la struttura, cioè l’immediata incisività richiesta ai concetti critici che verranno portati avanti: come questa mostra, la prima a partire da un focus sull’Africa e la sua diaspora, influenzerà e coinvolgerà “ciò che dicono gli ‘altri’”?

E cosa significa invece “noi”? In architettura, dice Lokko, a parlare finora è stata una voce singolare ed esclusiva, che ha lasciato fuori larghe fasce dell'umanità, c’è quindi una storia dell’architettura che ancora può dirsi non necessariamente sbagliata ma indubbiamente incompleta: ecco che una mostra diventa un momento fondamentale per ri-raccontare la storia, costruire quindi il cambiamento.

The laboratory of the future vedrà quindi 89 partecipanti, molti provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana, in equilibrio di genere ed età: quasi metà di loro ritiene l’insegnamento una pratica professionale, e tutti ci confermano come lo strumento di progetto più potente si mostri essere l’immaginazione.

Walter Hood, Hood Design Studio, 2023. Courtesy Chris Derry. Foto di Chris Derry

Nel Padiglione centrale, Force majeure riunirà i più importanti practitioners africani e diasporici che operano oggi, Da David Adjaye all’atelier masōmī di Mariam Kamara, da Fancis Kéré a Theaster Gates Studio, con un in memoriam dedicato all’architetta ugandese Doreen Adengo scomparsa lo scorso anno. 

In Arsenale arrivano invece le Dangerous liaisons di 37 professionisti che si muovono fluidamente tra diversi campi  e collaborazioni, “che abitano più di un’identità”, la cui attività richiede a gran voce una definizione diversa di architetto facendo preferire quella di practitioner. La selezione parte da pratiche individuali e pratiche di ricerca, Suzanne Dhaliwal come la Decolonizing Art and Architecture Residency, Ursula Biemann come gli italiani Orizzontale, arrivando a quelle di grande dimensione che dedicano grande attenzione a emergenze sociali e ambientali come Flores & Prats, Neri&hu, Office for Political Innovation, Rahul Mehrotra con Ranjit Hoskote. 

I Progetti speciali della curatrice, poi, aprono un grande spazio fuori concorso, articolato su quattro temi: Food, agriculture and climate change; Geography and gender; Mnemonic; e i 22 giovani Guests from the future a farci immaginare assieme a loro il futuro della professione, come l’uomo del futuro di quella unica strofa di poesia dove Anna Ahmatova raccontava le 12 ore della sua conversazione con Isaiah Berlin a Leningrado.

Orizzontale, Casa di BelMondo, Belmonte Calabro (CS), 2019-ongoing. Courtesy La Rivoluzione delle Seppie. Foto di Antonio d'Agostino

Arricchiranno il programma le tre partecipazioni speciali del regista Amos Gitai, di Rhael 'LionHeart' Cape, il primo poeta laureato in architettura, e del fotografo James Morris; il College che su open call ha raccolto 50 giovani studenti a confrontarsi con tutor e critica sui temi di decolonizzazione e decarbonizzazione; e Carnival, il public program nato dall’intuire quel punto di contatto tra Venezia e la diaspora africana costituito dal carnevale dove per un giorno schiavi rovesciano la schiavitù e sono liberi, e che sostituirà quindi gli eventi ufficiali di fine mostra con una sequenza di incontri tra maggio e novembre dove le idee possano essere discusse e sperabilmente ricordate, discusse da politica, pratica ricerca e attivismo insieme.

Tutto questo ha un’eco nell’identità visuale della mostra, che ha trovato negli spazi negativi del testo scritto la possibilità di una parola libera sul continente africano, così come la palette di colori ispirata all’Africa Occidentale da cui Lokko proviene, e non ad un immaginario euro-occidentale dell’Africa.

Miriam Hillawi Abraham, Roha: The Heretic’s Saga, 2019. Courtesy Miriam Hillawi Abraham.

Di decolonizzazione si occuperà anche il Padiglione di Arti Applicate, sviluppato per il settimo anno  assieme al Victoria and albert Museum di Londra, che indagherà le vocazioni molteplici del moderno in Africa, dalle implicazioni coloniali degli esperimenti applicativi di Maxwell Fry e Jane Drew alla Architectural Association negli anni ‘50, fino alle architetture che Nkrumah nel Ghana liberato scelse come elementi di un linguaggio panafricano simbolo di una nuova indipendenza.

Immagine di apertura:
Padiglione della Lituania, Biennale d’Arte di Venezia 2019. Foto di Andrej Vasilenko

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