Biennale Venezia

Architettura e arte: la Biennale che non c’è

Venezia si reinventa nell’anno della pandemia, restando in qualche modo in piedi senza allontanarsi troppo dalla propria matrice. Ma l’effetto-Covid mette in crisi una intera sovrastruttura socio-culturale, quella delle biennali, delle triennali e dei festival. Da Domus 1048.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1048, luglio-agosto 2020.

Non accade spesso che la Biennale “perda il passo”. Soprattutto quella di arte, che ha sempre assorbito con paziente indifferenza anche scarti, ritardi e singhiozzi del settore Architettura, ammesso ufficialmente nel bouquet delle rassegne veneziane dal 1980 (“La presenza del passato”). Dal 1980 in poi il settore Arte ha alterato il ritmo solo una volta, facendo slittare l’edizione del 1992 al 1993. Come oggi, anche quella volta c’era un’ottima ragione, vale a dire assegnare opportunamente all’arte l’edizione del centenario, nel 1995. Da allora, i curatori di arte si sono sempre attestati sugli anni dispari, inducendo anche gli architetti all’alternanza perfetta.

Immaginiamo che anche quest’anno la curatrice Cecilia Alemani si sarebbe tenuta stretto il 2021. Ma è arrivato il coronavirus e, alla fine, dopo averci tenuto col fiato sospeso quasi fino all’ultimo, anche la Biennale ha ceduto e ha fatto slittare il tutto di un anno, collocando l’How we will live together? di Hashim Sarkis nel prossimo maggio e la Biennale Arte, appunto, nel 2022. Digerita la delusione, le ragioni sono apparse subito evidenti. Oltre alle conseguenze della pandemia c’era il fatto che solo una quindicina degli oltre 60 Paesi partecipanti avevano confermato la presenza, mentre circa 100 dei 135 architetti invitati da Sarkis per la sua mostra avevano già dato o paventato il forfait, per ragioni, dalle più ovvie alle più drammatiche, che si possono facilmente intuire. Insensato aprire la mostra in queste condizioni, con uno spreco di risorse che fa paura calcolare e un ritorno vicino allo zero anche per il contesto veneziano. L’opportunità della scelta è apparsa ancora più chiara qualche settimana dopo, quando si è visto in quali condizioni devono operare i musei ‘riaperti’: costi a pieno regime, pochi visitatori e limitati al pubblico locale, gallerie quasi vuote, complicazioni sanitarie, sindacali e gestionali. Per i musei è una missione sociale e culturale giusta e non demandabile; per un’istituzione come la Biennale, o come le mille biennali sparse per il pianeta, basata sull’evento e sulla sua forza di attrazione breve e globale, sarebbe stato un bagno di sangue. Quindi “vivremo insieme” l’anno prossimo, per ora possiamo solo aspettare insieme che passi.

I Giardini della Biennale di Venezia che avrebbero dovuto aprirsi a fine maggio per la 17. Mostra Internazionale di Architettura diretta da Hashim Sarkis. Foto Claudia Corrent

Più interessante forse osservare come la Biennale ha reagito in positivo al colpo subito dal Covid-19. A differenza dei grandi musei o d’istituzioni fortemente radicate nel quotidiano delle loro comunità, la Biennale non ha scelto di riversare tutta la sua potenza di fuoco sul web e sull’eventologia digitale, ma ha deciso di restare analogica e di trovare il modo di continuare a fare il suo mestiere, mettendo comunque in programma un’‘altra’ mostra per l’estate che sta arrivando. L’idea non è affatto male: il nuovo presidente Roberto Cicutto ha “tenuto botta” e ha affidato ai direttori artistici delle discipline della Biennale – Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica e Teatro – il compito di curare collettivamente una mostra ‘retrospettiva’ su come la Biennale ha affrontato le crisi globali e locali lungo la sua storia.

L’“effetto Covid”, 20 anni dopo l’“effetto Bilbao”, mette decisamente in crisi questa sovrastruttura socio-culturale e lo strano welfare transnazionale che la sostiene

La mostra occuperà le stanze del Padiglione Centrale e consentirà quindi che anche quest’anno i Giardini siano aperti al pubblico. Oltre alla mostra ci sarà un’arena per proiezioni e saranno organizzate molte attività complementari (lezioni, visite guidate, incontri), mentre Teatro e Musica svolgeranno regolarmente il loro programma.

Implicita, in questa serie di scelte, anche la visione che la Biennale ha del suo futuro: aspettare con le mani tutt’altro che in mano che la nottata sia passata e prepararsi a rimettere in moto la macchina appena possibile, lasciando semmai al lavoro dei curatori il compito d’inglobare il dibattito post-Covid all’interno dei loro progetti.

I Giardini della Biennale di Venezia. Foto Claudia Corrent

Più in generale, l’esempio dell’istituzione veneziana ci consente di allargare lo sguardo alla platea vastissima di biennali, triennali, quadriennali e festival sparsi per il mondo. A differenza dei musei, come si accennava prima, i responsabili di queste iniziative non hanno in gran parte voluto o potuto lanciarsi a corpo morto nella nuova sfida digitale. L’hanno fatto con molta moderazione; o hanno preferito una pura sospensione temporale, in attesa, e nella speranza, di tempi migliori. Da un lato, fanno fatica a riconvertire in flusso digitale un’identità tutta basata sulla straordinaria attitudine al nomadismo culturale della propria attendance. Dall’altro, non possono permettersi di dirottare risorse strettamente legate all’evento verso una programmazione immateriale, povera di ‘ritorni’ economici e sociali, di spazi vendibili (a sponsor), di occasioni di scambio e interazione diretta.

È una condizione preoccupante, non priva però di qualche risvolto interessante. Negli ultimi decenni l’elenco delle biennali (in senso lato) di architettura e design è cresciuto in modo esponenziale, arrivando a costituire una specie di cultura architettonica parallela e a deviare sensibilmente l’asse portante delle discipline in questione. È un fenomeno positivo, perché contribuisce a espandere a dismisura il campo d’azione di chi opera nel nostro ambito. Ma anche negativo, perché tende a produrre una distanza eccessiva tra teorie e prassi progettuale.

L’“effetto Covid”, 20 anni dopo l’“effetto Bilbao”, mette decisamente in crisi questa sovrastruttura socio-culturale e lo strano welfare transnazionale che la sostiene. Alla fine potrebbe forse operare una selezione, o invece paradossalmente allontanare ancora di più i progettisti dal loro esercizio tradizionale, perché in fondo organizzare un workshop o una serie di conferenze costa meno e necessita di meno consenso che realizzare un progetto edilizio. Non ci resta che aspettare, contribuire alle fasi 4, 5, 6 e stare a vedere cosa succede.

Immagine di apertura: I Giardini della Biennale di Venezia. Foto Claudia Corrent

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