Un weekend a Stoccolma, capitale del no-lockdown

Niente mascherine, niente chiusura nella più grande città svedese. Una normalità solo apparente, dietro cui abbiamo intercettato una lucidissima idea di presente e di futuro della città.

Fuori da Flyng Tiger, mecca transnazionale del design del futile a basso prezzo, c’è la coda. Una scena che si ripete uguale nelle metropoli di mezzo mondo, a quest’ora del sabato pomeriggio. Ma qui sulla Götgatan, lunga arteria commerciale di Stoccolma,  qualcosa è diverso. Perché nessuno dentro al negozio indossa una mascherina. E nessuna persona fuori. E neanche tra i passanti, tranne giusto una signora anziana, che avanza in questo dicembre insolitamente senza neve appoggiandosi a un girello. Né succede negli altri negozi della capitale svedese, al supermarket come alle poste, o in altre parti della città, nelle boutique di Ostermalm o nei vicoli che si arrampicano su e giù per Gamla Stan, la città vecchia, o sui bus o nei vagoni della metropolitana. Qui in Svezia non c’è obbligo di mascherina, esattamente come non c’è mai stato un lockdown.

Incontro Ola Broms Wessel fuori dagli offici di Spridd, di cui è fondatore. Arriva in bici, il suo mezzo di traporto preferito per muoversi in città, mi spiega, insieme a una piccola barca. Ripariamo dall’altra parte dell’isolato, al Café Nizza, un posto che da fuori non gli daresti una lira, dentro sofisticatissimo, dove ci servono ribolla friulano non filtrato e sidro di pera della Normandia. Fuori ci sono cinque, sei gradi e niente neve, una condizione anomala qui a Stoccolma. Questa domenica Greta, l’ecoattivista svedese minorenne diventata icona mondiale, sarà guest editor del quotidiano nazionale Dagens Nyheter. Con Ola parliamo appunto di sostenibilità e di edifici interamente costruiti in legno e modulari; di questa nazione sconfinata nella quale le città sono poche e concentrate nella parte meridionale; di architettura e del milione di appartamenti costruiti qui in Svezia tra il 1965 e il ’75, del rischio di una bolla e del boom delle case qui a Stoccolma, dei microappartamenti, dei tanti investimenti stranieri e del fatto che questa sia la città d’Europa con il più alto numero di famiglie composte da una singola persona. Una città di persone sole, che spesso si isolano, d’inverno soprattutto. Durante la chiacchierata capisco che dietro l’apparente normalità c’è una realtà in cui nessuno sta facendo finta che il Coronavirus non esista, come sembra leggendo la stampa internazionale, da cui spesso la Svezia del no-lockdown viene ritratta come un paese incomprensibile ed estremo e lontanissimo, una scandinava Pyongyang con mys e candelabri a sette bracci ordinatamente disposti alle finestre sotto Natale. 

Come le altre grandi metropoli, la pandemia cambierà anche Stoccolma. Ola ne è convinto, e prevede una ridistribuzione della densità, con la crescita di zone suburbane attualmente ancora marginali, in cui lieviterà il prezzo, sempre che non stia già accadendo. La città evolverà. La vita sarà più verde. Perché è vero che in Svezia non c’è mai stato un lockdown, ma il lavoro da casa è incoraggiato e da marzo si va in ufficio solo in caso di necessità. Così hanno fatto anche la dozzina di persone impegnate da Spridd. Non c’è mai stato un problema di efficienza, sottolinea Ola, e afferro che ci sia pochissima nostalgia per il timbrare il cartellino da queste parti, dove si respira certamente un’aria ben più leggera di quella nostalgica che circonda sempre queste discussioni in Italia. La Svezia era un paese flessibile già prima che dilagasse il Covid-19, la reazione è stata consequenziale. Saluto Ola, che va a recuperare la barca, stasera ha una partita di paddle tennis con degli amici. Prima di lasciarci mi indica un percorso, tra scale e stradine, che risale la città e permette di vederla dall’alto, una sorta di Mulholland Drive pedonale stoccolmese. Trattenendomi fino alle 22, orario imposto per l’ultimo drink nei bar, una delle pochissime misure restrittive qui, potrò osservare come per le strade si disperderanno quei pochi coraggiosi che si sono spinti fuori dalle loro abitazioni per un bicchiere serale.

La flessibilità delle regole che c’è qui, unita alla prontezza con cui i cittadini la adottano, e l’onda lunga del boom dei prezzi delle case, che si è arrestato solo nel 2018, rendono la capitale svedese un interessante osservatorio per capire come si trasformano e trasformeranno le città, anche in conseguenza della pandemia. Rebecka Gordan, giornalista di Arkitekten, mi racconta che il Boverket, l’ente statale per le case, sta esplorando la possibilità di trasformare in spazi residenziali gli uffici rimasti vuoti nel centro città. Paradossalmente, tra gli effetti del Covid potrebbe esserci quello del ritorno ad abitare in centro.  Di sicuro, mi racconta la giornalista, da marzo è aumentata la richiesta di ville o abitazioni immerse nel verde, vicino alla Nackareservatet, una vasta riserva naturale nel sud della città. La riscoperta della natura ha avuto un ruolo centrale in questi mesi, supportata anche dal fatto che l’unica reale indicazione per i cittadini è stata quella del distanziamento sociale, come ricordano in tutta la città cartelli con un cuoricino attaccati ai semafori e ai muri. Poche ore dopo il mio rientro in Italia, la Reuters diffonderà la notizia che a Stoccolma le terapie intensive sono al collasso. 

In Svezia, il governo per gestire la pandemia ha finora seguito le istruzioni dell’Agenzia per la Salute Pubblica nazionale, che nella sostanza, anche se non legalmente, si occupa di indicare come gestire l'emergenza dando indicazioni alla popolazione. Rebecka mi spiega che intorno alla possibilità di un lockdown si è dibattuto, ma sarebbe una soluzione che mal si accorda con i principi del diritto svedese. E che gli studenti della scuola dell’obbligo non hanno mai smesso di frequentare le classi in presenza. L’unica restrizione il pubblico è il divieto di incontri superiori alle otto persone, tranne i funerali: cinema e teatri sono chiusi, con le serrande abbassate a punteggiare una Stoccolma dove tutto si svolge apparentemente come sempre. 

Gli uffici di White Arkitekter occupano tre piani di un edificio sostenibile costruito nel 2003 all’estremità meridionale di Södermalm, stretto tra il sistema di viadotti sovrapposti che collegano l’isola con il distretto di Johanneshov, e il canale dove si affacciano le nuove costruzioni del quartiere Hammarby Sjostad, che fanno da scenario alla nostra conversazione, incorniciate dalle finestre della grande sala riunioni dove incontro l’architetta Margaret Steiner. Scegliere questa posizione è stata una scommessa, mi spiega lei, parlandomi dell’evoluzione del distretto. Sul tavolo di legno, enorme, ci sono solo i nostri caffè e appunti, un piatto di biscotti allo zenzero, e gli smartphone appoggiati faccia in giù. Prima di marzo in questi uffici lavoravano quasi 200 persone. Oggi ne intravvedo una decina, scarsa. È anche il merito di una piattaforma digitale sviluppata due anni fa, con l’intenzione di favorire non tanto il lavoro remoto, piuttosto quello tra i 13 uffici del gruppo, sparsi tra Scandinavia e Londra. Con la pandemia, anche i viaggi si sono interrotti. I momenti di incontro e presentazione sono stati sostituiti da meeting online, mi racconta Margaret.

Parlando di Stoccolma, l’architetta – che di origini è statunitense – la descrive come una città non densa, ma nella quale le persone tendono però a concentrarsi, e mi parla di un futuro in cui gli edifici dovranno integrare aree multifunzionali, con utilizzi diversi a seconda del momento della giornata. Sottolinea anche che lo sviluppo delle aree periurbane era un elemento di discussione già prima del Covid, e tratteggia lo scenario per una grande sfida, come conciliare localmente quelli che il filosofo Paul B. Preciado definisce  “lavoratori verticali”, ovvero coloro per cui la pandemia ha cambiato poco o nulla nel lavoro, con quelli orizzontali, chi da marzo lavora dal proprio salotto o dal caffè sotto casa.

“E tu, che vieni da Milano in lockdown, qual è la tua sensazione?”. Entro da Wayne’s, sfoglio le riviste, ordino un americano e un dolcetto allo zafferano, mi siedo. Davanti a me un uomo legge Lee Child. Quattro ragazze smanettano i loro portatili nel tavolo di fianco, ridono ogni tanto. Una signora beve un caffè. Una cameriera tira su i bicchieri e i piatti di chi è uscito. Nessuno indossa una mascherina. Esco, entro in negozi, centri commerciali, una stazione della metro. Entro ed esco. Salgo e scendo, attraverso ponti. Stoccolma è una città di salite e discese, un arcipelago di 30mila isole, di cui circa 200 abitate. Mi sveglio presto e faccio un giro, alle 9 per le strade quasi solo runner, in centro vedo i tavolini del Thelins Grand Caffè affollarsi per la colazione del sabato, i centri commerciali sono vuoti, ma a mezzogiorno le vie dello shopping si affolleranno. Entro da Acne Studios, da Thule, mi metto in coda da Louis Vuitton. Sul marciapiede davanti ai grandi magazzini NK c’è folla, ci sono le vetrine di Natale. Alcuni negozi sono pieni, altri completamente deserti. Salgo, scendo, attraverso ponti, il centro di Stoccolma è tutto un cantiere. Dopo pranzo è già buio, quando c’è luce assomiglia di più a un bagliore. Il cielo sempre lattiginoso. 

Domenica mattina sono da Vurma, un coloratissimo caffè nel quartiere di Hornstull. In cassa un cartello avvisa che qui si paga solo con la carta. A Stoccolma puoi tranquillamente non prelevare mai, transazioni contactless ovunque, appoggi il telefono e via. Prendo un caffè americano, mi siedo su un divanetto vicino all’ingresso aspetto James Taylor Foster, curatore presso Arkdes, il museo di architettura e design ora chiuso, come tutti i musei pubblici. “Ma alcuni privati sono aperti”. James mi parla della vita che faceva prima, quella che facevamo in tanti, quando volava a Los Angeles magari solo per tre giorni, che ora gli sembra folle, una vita lontanissima; di questo strano dicembre senza neve, il primo da quando vive qui; dell’approccio svedese alla pandemia, tutto incentrato sul no-panic, sul rilievo dato alla salute mentale e non solo a quella fisica, e su quanto queste scelte siano intrecciate con un territorio poco denso e una cultura in cui ci si isola già normalmente. “Non pensare che qui sia normale andare a trovare i genitori la domenica”, sottolinea. Ho l’impressione che James, cittadino del mondo, britannico di nascita e con un passato in Italia, sia felice, anzi sollevato, di essere un cittadino di Stoccolma in questo assurdo 2020. Capitale di un paese dove si cerca una via di mezzo tra la gestione della malattia e la prevenzione del danno psichico, che poi è quello che resterà del Covid-19 nei prossimi anni oltre alla conta dei morti.

Parliamo anche del museo che verrà, passando per l’esposizione del 2018 di Space Popular ad Arkdes, “Value in Virtual”,  curata da James, e da lì finiamo a discutere di un domani in cui l’interazione social nella realtà virtuale potrebbe avere rilevanza globale. Il curatore racconta una conversazione lunga un’ora avuta in VR con un veterano del Vietnam, e altri aneddoti sull’eperienza ancora un po’ anarchica della connessione attraverso l’ambiente virtuale condiviso, che si può vivere negli epigoni di Second Life. Parliamo di avatar e del momento critico in cui lo spazio virtuale sarà venduto e affittato come quello reale. È la coda di un racconto che parte dal lungo video che Arkdes ha realizzato a marzo come vernissage della mostra sull’Asmr, “Weird Sensation Feels Good”. Una decisione presa al volo mentre nel resto del mondo scattavano i primi lockdown, uno sforzo produttivo incredibile per fare quello che il museo prima non aveva mai realizzato, uno show televisivo di un’ora e mezza che ha raccontato la mostra invitando il pubblico all’interno dei suoi ambienti, trasformando Arkdes in “un museo nazionale di un mondo globale transnazionale”.  

Fare uno show in streaming ti dà una audience globale, spiega James, ma è un grande impegno. Il cambiamento non è mai gratuito. Costa soldi ed energie. Conoscenze vanno acquisite o acquistate. Siamo in bilico e che il mondo di prima torni com’era, con i suoi cinema e i teatri e i musei come li abbiamo sempre conosciuti, potrebbe essere una illusione da vendere sulle copertine dei giornali, niente più. Sembrerebbe una coincidenza quell’esposizione sull’Asmr, un tema, sottolinea il curatore, quanto mai attuale, perché il fenomeno, popolarissimo in Giappone e Corea come negli Stati Uniti e in Europa, è un surrogato dell’intimità, il riflesso di un isolamento che diventa la normalità. Raccontarlo è anche una ricerca su quello che siamo diventati, che stiamo diventando soprattutto quest’anno. E la domanda che segue è cosa succederà quando saremo nuovamente “non più da soli, ma in pubblico”. E da qui il discorso si riannoda a quello sul social VR, con una circolarità che in qualche modo lo sigilla.

Intanto, fuori da Vurma si è creata una piccola coda. Le persone entrano una alla volta, al massimo in due, prendono un caffè e magari un piccolo dolce, escono. “Da qui”, osserva con curiosità James, “è difficile capire come siano le cose fuori, come sia il mondo in lockdown”. Per chi vive in Svezia l’eccezione siamo noi, non loro. Improvvisamente realizzo che per me la mascherina è stata un po’ come un gesso che hai tenuto a lungo, all’inizio senza ti senti nudo e fragile, poi è come se non fosse mai successo niente. “Deve essere assurdo tutto questo, per te”, osserva James. E poi fa la domanda cruciale: “Qual è la tua sensazione qui?”

Una nota: ho visitato Stoccolma tra il 4 e il 7 dicembre 2020, e questo articolo riflette ovviamsente la situazione che ho trovato. Con l'aggravarsi della situazione, l'avvicinarsi delle feste di natale e in conseguenza anche di un aggravarsi dei casi, menzionato nel testo, sono state prese misure maggiormente restrittive, che non contemplano comunque un lockdown.

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