Architettura organica

A partire dagli esempi di Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto, l’architettura del Novecento è attraversata da una linea di ricerca originale, alternativa ai dogmi del funzionalismo moderno ortodosso.

Giovanni Michelucci, Chiesa di San Giovanni Battista, Campi Bisenzio, 1960-1964. Foto © Casali-Domus. Da Domus 413, aprile 1964

L’aggettivo “organico” fa la sua comparsa nella riflessione sull’architettura all’inizio del Novecento. Più di tutti, è Frank Lloyd Wright (1867-1959) ad impegnarsi nella definizione delle caratteristiche di un’architettura organica, e ad applicarle sistematicamente nei suoi progetti costruiti. Tra le tante occasioni, Wright utilizza il termine organico per la prima volta nel 1908, poi in un famoso articolo del 1914 per Architectural Record, e ancora nel libro Organic Architecture, che dà alle stampe nel 1939, come trascrizione di quattro conferenze tenute in quell’anno al RIBA – Royal Institute of British Architects di Londra.

L’architettura organica di Wright non è, banalmente, un’architettura di forma organica. Citando Kenneth Frampton: “Anche se non ha mai raggiunto una definizione precisa, si può affermare che per Wright [l’architettura organica] corrispondesse alla creazione, economica, di forme e spazi costruiti che rispondessero ai principi più aggiornati della natura, rendendoli manifesti attraverso l’utilizzo della costruzione in calcestruzzo”. Wright si posiziona criticamente rispetto ai principi del funzionalismo à la Le Corbusier: ne sposa alcune premesse, tra cui la pianta libera e la struttura in cemento armato, ma rifiuta l’esaltazione della macchina e della standardizzazione

Wright interpreta le evoluzioni tecniche della sua epoca (tra cui l’automobile) come l’occasione per immaginare una società e una città americana radicalmente diversa: l’utopia di Broadacre City (1932), proposta come alternativa alla metropoli tradizionale, è un’urbanizzazione dispersa su territori immensi, luogo di una società egalitaria e pacificata, basata su un rapporto organico tra l’architettura e la natura antropizzata. È all’interno di questa visione più ampia che vanno letti i progetti più dichiaratamente organici di Wright, tra cui il Johnson Wax Administration Building a Racine (1937) e la Kaufmann House di Bear Run (1935), dove la relazione con il paesaggio diventa anche compenetrazione fisica tra l’edificio e la cascata su cui sorge.

Nella stessa epoca, in Europa, un altro riconosciuto maestro della modernità architettonica si avvicina ad una modalità organica di concepire l’architettura: Alvar Aalto (1898-1976). Se Wright ambisce a rifondare la nazione statunitense (per la quale conia l’aggettivo “Usoniana”), Aalto comincia la sua carriera nel momento cruciale dell’indipendenza della Finlandia dalla Russia (1917). Così, è da una tradizione specificamente finlandese (e più in generale scandinava, si pensi ad esempio a Erik Gunnar Asplund) che deriva la sua attenzione per l’ambiente, il sito più o meno naturale in cui s’inseriscono i suoi edifici

Dimostrando una propensione anti-meccanicista anche più convinta di quella di Wright, Aalto imposta il progetto sulla base di parametri inediti, spesso trascurati dai sostenitori del funzionalismo più ortodosso: la luce e il calore solare, il raffrescamento naturale, le proprietà acustiche degli spazi, le esigenze di identità e privacy dei loro occupanti. Progetti come la Biblioteca di Viipuri (1927-1935) e il Sanatorio di Paimio (1927-1934) sono particolarmente rappresentativi di queste preoccupazioni, mentre realizzazioni più tarde, come la Villa Mairea a Noormarkku (1938) e la Säynätsalo Town Hall (1949-1952) testimoniano del crescente interesse di Aalto per materiali antichi come il legno e il mattone.

Wright e Aalto sono in un certo senso i numi tutelari di un’attitudine organica che attraversa l’architettura occidentale per tutto il XX secolo, anche tramite continui scambi tra le due sponde dell’Oceano Atlantico. In America, due collaboratori di Wright ne proseguono e rielaborano l’insegnamento: Rudolf Schindler (1887-1953) e Richard Neutra (1892-1970), autore della celebre Lovell Health House a Los Angeles (1927) e teorico del “bio-realismo”. E se Aalto sbarca negli Stati Uniti con il progetto per la Baker House dell’MIT a Cambridge (1947), il pensiero di Wright conosce un enorme diffusione in Europa. Figura cardine di questo processo d’importazione è, soprattutto in Italia ma anche in Spagna, lo storico e critico Bruno Zevi (1918-2000), autore di Verso un’architettura organica e fondatore dell’APAO – Associazione per l’architettura organica (entrambi nel 1945).

Frank Lloyd Wright, Case di campagna, Galesburg, 1946-1949. Da Domus 1015, luglio-agosto 2017
Frank Lloyd Wright, Case di campagna, Galesburg, 1946-1949. Da Domus 1015, luglio-agosto 2017

Un approccio organico può essere riconosciuto nelle opere di innumerevoli protagonisti della storia dell’architettura moderna e contemporanea: un elenco solo parziale comprende Giovanni Michelucci (1891-1990), autore della Chiesa di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio (1960-1964), Hans Scharoun (1893-1972), l’architetto della Philharmonie di Berlino (1956-1963), e ancora Josep Antoni Coderch (1913-1984), Jørn Utzon (1918-2008) e il visionario Paolo Soleri (1919-2013). La diversità dei loro percorsi conferma come l’architettura organica non si sia mai cristallizzata in un movimento chiaramente delimitato, ma piuttosto si sia evoluta in una sensibilità trasversale a luoghi, epoche e culture architettoniche.

Nelle parole di Frank Lloyd Wright:

Mi piace credere che una casa debba esistere come una nobile compagna degli uomini e degli alberi. Per questo una casa deve produrre un’impressione di pace e di grazia, armonizzandosi con la natura. (…) Non oltraggeremo le macchine rendendo le nostre case troppo simili ad esse
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