Racconti in superficie

Anticipando i temi del simposio internazionale all’Istituto Svizzero di Roma, Domus ha incontrato Giuliana Bruno per parlare delle numerose relazioni tra architettura e cinema.

Racconti in superficie: Giuliana Bruno

Il 13 e 14 giugno all’Istituto Svizzero di Roma si parla delle numerose relazioni tra architettura e cinema dalla modernità ai nostri giorni. L’occasione è un simposio internazionale, a cura di Marino Stierli dell’Universität Zürich, che vede la partecipazione di 10 relatori provenienti da diverse discipline per affrontare il tema in tutta la sua complessità. Olivo Barbieri, Marco Brizzi, Giuliana Bruno, Teresa Castro, Edward Dimendberg, Marisa Galbiati, Henry Keazor, Christina Kerez, Richard Koeck e lo stesso Stierli offrono il proprio sguardo sul tema dal punto di vista della fotografia, dell’architettura e dell’arte.

Domus ha incontrato Giuliana Bruno, professor of Visual and Environmental Studies ad Harvard, che ci ha anticipato alcuni degli argomenti del suo intervento di apertura al convegno, fornendoci al contempo un’anteprima di Surface: Matters of Aesthetics, Materiality and Media, la sua ultima fatica letteraria in uscita all’inizio del 2014 per i tipi della University of Chicago Press.

 

Emilia Giorgi: Nel suo ultimo libro, indaga la superficie architettonica come un luogo stratificato su cui può avvenire qualcosa. Un luogo dotato di capacità narrativa. Ce ne può parlare?

Giuliana Bruno: Nel libro Surface: Matters of Aesthetics, Materiality and Media propongo di indagare i fenomeni che si manifestano in superficie, con particolare attenzione a quella dello schermo, per coinvolgere il grande potenziale di espressione materiale tipico degli ‘schermi’ dei diversi media.

Mi interessa superare l’immagine per comprendere la spazialità tangibile delle arti visive e l’esperienza che offrono quando viviamo i luoghi che le ospitano. Per questo credo sia necessario effettuare un passaggio fondamentale dall’ottico all’aptico, un sistema relazionale legato al senso del tatto che ci consente di entrare in contatto con gli oggetti o gli ambienti attraverso la superficie.

Nel libro parlo di un nuovo concetto di materialità che non riguarda tanto le materie quanto le relazioni materiali. Una materialità che richiama l’idea dello schermo su cui prendono forma storie e vissuti capaci, intersecandosi, di creare volume e profondità. Sulla superficie si genera una tensione che modifica in maniera strutturale lo spazio ospitante. Sulle facciate degli edifici, ad esempio, gli architetti lavorano con elementi narrativi che non sono solo ornamentali, come avveniva in passato, ma strutturali. La superficie diventa spazio in movimento e in trasformazione.

Pensiamo alle opere di Herzog & de Meuron dove la superficie degli edifici viene spesso trattata come una texture. Nel de Young Museum di San Francisco la facciata, duttile e leggera, ospita complessi giochi di luce. Diviene schermo in senso letterale perché filtra la luminosità, ma anche in senso metaforico se vi puoi leggere attraversamenti e condividere storie. Molto forte anche l’idea che guida il progetto del Museu da Imagem e do Som di Rio De Janeiro, dello studio Diller Scofidio + Renfro. La facciata dell’edificio è un luogo su cui si può addirittura fare una passeggiata, trasformando l’architettura stessa in una superficie sensibile che rende la separazione tra interno ed esterno sempre più fluida.

 

Racconti in superficie: Giuliana Bruno
In apertura: Isaac Julien, TenThousandWaves, 2010, Hayward Gallery, London. Courtesy of the artist, Victoria Miro Gallery, London, Metro Pictures, New York and Galería Helga de Alvear, Madrid. A Lato: Giuliana Bruno, autrice del libro Surface: Matters of Aesthetics, Materiality and Media, 2014, University of Chicago Press.

Mi fa pensare alla promenade architecturale di Le Corbusier, più volte citata nei suoi saggi, che vede il visitatore come un soggetto capace di animare e in qualche modo modificare l’architettura con i suoi attraversamenti all’interno dello spazio.  Un’immagine che stabilisce un legame tra i linguaggi dell’architettura e del cinema…

Senza dubbio. Le Corbusier diceva che l’architettura è un gioco di volumi evidenziato dalla configurazione della luce. Progettava i suoi edifici in modo che le superfici fossero modificate dalle transizioni luminose generate dalle fenêtre en longueur e dai movimenti dei visitatori che vivono e interpretano il luogo. La figura del visitatore si avvicina a quello dello spettatore cinematografico, capace di dialogare con l’architettura e renderla viva anche grazie ai passaggi psichici tra il proprio immaginario e lo spazio ospitante che da materiale si fa mentale.

 

Si può dire che il visitatore camminando all’interno dello spazio effettui una sorta di montaggio cinematografico?

La promenade architecturale di Le Corbusier si avvicina molto a un concetto espresso da Ėjzenštejn in un saggio degli anni Trenta. Qui il regista russo mette in relazione architettura e cinema attraverso il montaggio e il movimento. Quando una persona si muove dentro uno spazio architettonico crea delle vedute specifiche di questo luogo e al contempo realizza un assemblaggio fisico e psichico. Proprio come accade allo spettatore cinematografico quando associa le sequenze e traccia un itinerario accostando o contrapponendo le diverse situazioni. In maniera virtuale lo spettatore opera mentalmente come il visitatore. Addirittura Ėjzenštejn si spinge ad affermare che l’architettura è il prototipo del cinema e il primo film non è stato altro che uno spazio urbano, l’Acropoli di Atene.

 

Nel libro Pubbliche intimità (2007, ed. it. Bruno Mondadori, 2009) parla dello spazio museale come di un mezzo di trasporto culturale in cui il visitatore assiste a una messa in scena. Anche qui le analogie con lo spettacolo cinematografico mi sembrano evidenti…

Camminando attraverso gli spazi espositivi, il visitatore non guarda mai le opere solo in maniera isolata, anche nei musei più tradizionali. Piuttosto realizza un vero e proprio montaggio di immagini in movimento, creando una sorta di film. Ci sono numerosi artisti che hanno lavorato su questo concetto, come Isaac Julien ad esempio, a cui nell’ultimo libro ho dedicato un’ampia trattazione. Julien nella sua carriera ha spesso costruito percorsi cinematografici attraverso un itinerario museale.

La questione interessante è che oggi il museo è in grado di ricreare quella condizione di narratività. socialità e relazione tipica del cinema che permette di fare esperienze intime e personali in uno spazio pubblico. Si entra in relazione con le opere d’arte ma anche con gli altri visitatori. Il museo come il cinema rende possibile l’espressione di una pubblica intimità.

 

Nei suoi saggi si muove liberamente tra le discipline, creando rimandi e connessioni.  Un approccio cruciale per comprendere le arti contemporanee sempre più orientate verso la condivisione di terreni comuni.

Credo che non abbia alcun senso separare architettura, arte o cinema perché sono tutte forme di attivazione di un immaginario spazio-temporale che è visivo ma anche interiore. La specificità del mezzo è un’idea obsoleta per le arti perché la creatività risiede sempre di più nella capacità di creare relazioni tra i linguaggi. Il lavoro del critico è quello di cogliere questi passaggi studiando ciascuna disciplina ancora più a fondo, in modo che lo stesso percorso di ricerca possa poi produrre risonanze, sconfinamenti e momenti di contatto profondo.

Per questa ragione al centro del mio nuovo libro c’è la superficie trattata come uno spazio di relazione — uno schermo che si attiva nel mettere in comunicazione architettura, arte e cinema

Articoli più recenti

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram