documents and journeys
ruptures and hinges...[1]
La mostra "The particular way in which a thing exists" ("Il modo particolare in cui una cosa esiste") a cura di Michèle Thériault, alla Leonard & Bina Ellen Art Gallery, riunisce alcune delle opere dell'artista newyorchese Martin Beck realizzate negli ultimi dodici anni. L'esposizione, introspettiva più che retrospettiva, è concepita come la riaffermazione e la presentazione della particolare prospettiva di Beck nei confronti della prassi espositiva e della produzione artistica. Il giorno del corteo natalizio di Montréal ci siamo incontrati per discorrere del suo modo di fare arte, del suo rapporto con la storia e del suo modo di guardare le cose.
Osservando a posteriori il tuo lavoro, mi pare di vederci un forte interesse per la storia del tardo Modernismo. Ti sei occupato di temi diversi come il sistema espositivo Struc-Tube di George Nelson, la sede della facoltà d'Arte e Architettura della Yale University di Paul Rudolph, il convegno internazionale di design del 1970 "Environment by Design" di Aspen e, di recente, del movimento comunitario statunitense degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. C'è un assunto generale che caratterizza la tua prassi e la tua prospettiva storica?
Si potrebbe dire che ho un interesse particolare per i momenti di paradosso del passato più recente. Gli oggetti, i fenomeni e le narrazioni cui mi ispiro puntano a nodi di trasformazione della storia recente, a momenti in cui le cose subiscono una svolta e cambiano, quando non è ben chiaro in che direzione si rivolgeranno: momenti dal futuro contraddittorio e dal passato molteplice. Il paradosso è la chiave di questo interesse perché offre un'immagine metaforica in cui si condensano percorsi molteplici e complessi. Questo convergere di possibilità e impossibilità è una cosa che mi interessa profondamente: come modo di pensare, come modo di guardare e come indagine su quel che l'arte può fare.
Per la maggior parte, gli eventi di cui ti occupi sono relativamente recenti e alcuni hanno avuto pochissimo spazio negli studi accademici. Pensi che questi momenti restino elusivi e paradossali perché ancora non sono stati oggetto di ricerca storica e perché hanno bisogno di testi canonici che ne definiscano la condizione?
Non credo. Il paradosso è intrinseco. Non penso che questi momenti possano o debbano essere "definiti". Proprio la loro mobilità e la loro incertezza sono, in parte, quel che li rende interessanti e problematici. Qui stanno la bellezza e le potenzialità di questi paradossi storici: esistono come rapporti conflittuali che rimangono fluidi. La narrazione tradizionale e, fino a un certo punto, la saggistica storica tendono alla chiusura. Le storie che mi interessano non sono né lineari né teleologiche. È questo a renderle interessanti dal punto di vista artistico, è questa la ragione per cui si può 'farne' qualcosa, per cui continuano a essere espressive.
L'opera usa l'edificio come simbolo di come uno stesso oggetto fisico possa assumere significati molto diversi nel tempo. Il percorso discorsivo di scrittura, descrizione e critica che l'edificio ha generato indica tre fasi completamente diverse del modo di considerarlo. Nei primi anni Sessanta era celebrato come l'acme del Modernismo: la sua integrazione di spazio, materiale e rapporto interno-esterno era considerata il successo per antonomasia dell'architettura moderna. Ma ben presto le stesse qualità spaziali furono associate al potere delle istituzioni. Con il cambiamento della cultura e della società della seconda metà degli anni Sessanta, con l'evoluzione dei movimenti giovanili e della contestazione studentesca, la percezione (e il ruolo) di che cosa rappresentasse il Modernismo cambiarono anch'essi. L'edificio divenne l'incarnazione del fallimento del funzionalismo moderno. Nonostante le sue qualità di integrazione spaziale, venne a rappresentare la mancata promessa di emancipazione del Modernismo. Il 14 giugno 1969, durante le proteste studentesche di Yale, l'edificio andò a fuoco. Si disse che il fuoco era stato appiccato deliberatamente, benché le indagini non abbiano trovato prova di un incendio doloso. L'evento cambiò radicalmente la condizione dell'edificio. Improvvisamente lo stesso oggetto, la stessa forma fisica venne a significare qualcosa di molto diverso: l'edificio divenne il simbolo della "ragione per cui il Modernismo non andava bene". Circa quindici anni dopo la percezione dell'edificio cambiò ancora: assurse a capolavoro nel canone generale dell'architettura del XX secolo. Le tre bibliografie delineano questi discorsi differenti: tra le immagini e le bibliografie il visitatore guarda l'oggetto da punti vista molteplici. Queste circostanze apparentemente contraddittorie, una volta di più, alludono alla figura del paradosso.
Mi interessava a due livelli: il primo, naturalmente ovvio, è il discorso sul ruolo dell'ecologia in relazione al design. In più lo consideravo una piattaforma di comunicazione e vedevo un rapporto tra il formato della tavola rotonda e le mie indagini sulla storia delle modalità espositive. [2] Questa concomitanza permetteva un'affascinante intersezione tra il discorso sull'ecologia e i fatti comunicativi concreti. Mi interessavano anche i personaggi che si ritrovarono al congresso, un'interessante riunione di gruppi di persone differenti che rappresentavano mondi differenti: il progetto moderno rappresentato da Nelson, Herbert Bayer, Saul Bass e così via; il movimento degli studenti, l'architettura e l'ambientalismo militanti rappresentati da Sim van der Ryn, Michael Doyle, Ante Farm eccetera; e la critica dell'ideologia rappresentata dalla delegazione francese proveniente dal gruppo Utopie, di cui faceva parte Jean Baudrillard. Gli organizzatori del convegno insistevano sulla loro impostazione tradizionale degli interventi, con gli oratori che dal podio parlavano a un pubblico seduto, impedendo così qualunque nuova forma di comunicazione la generazione più giovane volesse sviluppare. Il risultato fu non solo un conflitto, ma una rottura della comunicazione. Il convegno di Aspen del 1970 può essere considerato contemporaneamente la fine e l'inizio di un'epoca, in termini di comunicazione e, naturalmente, in rapporto al discorso dell'ecologia e dell'ambiente. Dopo Aspen tutto fu diverso.
In gioco, direi, c'era il dialogo tra le generazioni sul ruolo del progetto nel rispondere alla sfida dell'ambiente cui le società moderne si trovavano di fronte. Il comitato organizzatore del convegno l'anno dopo cercò di rimettere insieme i pezzi, ma poi dovette rendersi conto che il discorso sul progetto moderno e sul suo rapporto con il pubblico era diventato cosa sorpassata. Si stavano sviluppando nuovi modi di pensare l'ambiente e l'etica funzionalista del progetto moderno, e quegli strumenti di comunicazione erano inadeguati a mettersi in sintonia con questi nuovi modi.
Uno dei piani del mio progetto su Aspen era rappresentato dall'elaborazione della cosiddetta Aspen Movie Map, un sistema pionieristico di viaggio surrogato della fine degli anni Settanta, basato su riprese cinematografiche girate nella località di vacanza del Colorado. La domanda formulata dal progetto riguardava come l'utente percepisca il movimento, in particolare le svolte. Come possiamo dire, in un'immagine filmica, se stiamo compiendo una svolta di novanta gradi oppure una di soli sessanta? La rappresentazione di una svolta e della relativa sfida cognitiva che essa implica è naturalmente un'ottima metafora per considerare la storia nel suo collegamento con la creazione di immagini. Riflettendo sulla linea dell'Aspen Movie Map ho collegato l'orientamento nello spazio fisico all'orientamento nel tempo. L'attuale viaggio immediato da un luogo storico all'altro è diventato un interessante modello di mediazione nella creazione di immagini in rapporto allo spazio e al tempo.
Il film non fa che tradurre in immagini i punti di riferimento: i luoghi dove per raggiungere una destinazione occorre un cambio di direzione. Alcune delle distanze tra i punti di riferimento sono essenziali: la maggior parte del viaggio si svolge tra l'uno e l'altro. Ma il film non traduce in immagini lo spazio tra i punti di riferimento, sfuma semplicemente al nero e rimane nero per un po' finché non compare la ripresa del punto di riferimento successivo. Il viaggio di per sé viene lasciato all'immaginazione dello spettatore. Nelle discussioni preliminari con la curatrice della mostra Michèle Thériault si è parlato molto del tema dell'intervallo, del vuoto tra le cose. Ci siamo chiesti: "È possibile pensare la mostra (e la mia prassi, che la mostra rappresenta) come una collezione di intervalli?" Dato che non volevamo riallestire mostre intere dovevamo basarci sui relativi frammenti, e il tema dell'intervallo divenne uno dei Leitmotiv dell'impostazione. Nell'allestimento della galleria gli spazi vuoti sono importanti, come la rottura della simmetria e della prospettiva. Lo spazio tra le opere ha preso il posto d'onore. Le opere vivono alla periferia, ai margini dello spazio mentre il centro delle pareti è per lo più lasciato vuoto.
Note:
1. Martin Beck, This time we'll keep it a secret, in Triple Canopy, n. 18 (gennaio 2013), in corso di pubblicazione.
2. La mostra di Beck si intitolava "Panel 2—Nothing better than a touch of ecology and catastrophe to unite the social classes…" ("Tavola rotonda n. 2: "Nulla di meglio di un tocco di ecologia e di catastrofismo per tenere unite le classi sociali…"). Venne allestita ai Gasworks di Londra (2008) e alla Arthur Ross Architecture Gallery presso la Columbia University di New York (2009). Il libro di Beck The Aspen Complex (Berlino, Sternberg Press, 2012) documenta le due versioni della mostra e comprende ricerche approfondite sul congresso internazionale di design di Aspen del 1970 e sulla Aspen Movie Map dell'Architecture Machine Group.
3. Michel Foucault, The Discourse of History, in Foucault Live: Collected Interviews, 1961–1984, a cura di Sylvère Lotringer, trad. ingl. di John Johnston, New York, Semiotext(e), 1989.
