Domus: Qual è la relazione tra il suo progetto per il Padiglione Italia e "Common Ground", il titolo che David Chipperfield ha dato a questa Biennale?
Luca Zevi: Il progetto per il padiglione è stato pensato proprio a partire dal titolo, "Common Ground", declinato, per il Padiglione Italia in "Le quattro stagioni", col sottotitolo "Architettura del Made in Italy, da Adriano Olivetti alla Green economy". Questo vuole essere un padiglione squisitamente di architettura e ho scelto di affrontare la crisi economica che stiamo attraversando. I trent'anni trascorsi sono stati dominati dalla finanza. Non vogliamo esprimere alcun giudizio ma quello è un periodo finito. Si tratta ora di capire come la ripresa può essere evocata. Credo non avverrà più attraverso la finanza ma attraverso il lavoro. Il nostro vuole essere un viaggio nel modo italiano di lavorare: perciò cominciamo da Olivetti, che è stato un imprenditore che offriva prodotti di eccellenza in stabilimenti di eccellenza, all'interno di una comunità di lavoro e con idee urbanistiche, oggi nuovamente percorribili. Un modello che ripropone l'Italia delle cento città e la valorizzazione del policentrismo, in opposizione al modello della metropolizzazione, alle grandi periferie e alle grandi industrie, che alla fine di questo ciclo non ci sono più. Non solo, ma dalle città si tende a scappare. [...]
Privilegiare le energie rinnovabili è coerente col discorso di utilizzare quanto abbiamo. L'Italia ha solo le rinnovabili, dall'idrico in giù, usarle significa valorizzare i nostri caratteri specifici. Su questo interviene il progetto. Non sempre gli architetti si sono interessati alle cose importanti negli ultimi decenni. Non ci siamo interessati ai viadotti per molto tempo, eppure sono un segno molto forte sul territorio. Se gli ambientalisti oggi fanno i convegni contro le rinnovabili è perché non le abbiamo fatte diventare belle come gli acquedotti romani! [...]
