Le sfide della nostra epoca e la città

Alcune riflessioni con la sociologa Saskia Sassen sulla crescente carica politica delle città globali nello spazio urbano e sul declino degli Stati-Nazione.

All'interno del quarto ciclo di conferenze The State of Things, commissionato dall'Office for Contemporary Art Norway (OCA) all'interno del programma di rappresentanza della Norvegia alla 54ma Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia, abbiamo incontrato Saskia Sassen, docente di sociologia della Columbia University di New York e co-direttrice della sua Commissione per il Pensiero Globale.
Dopo Jacques Rancière, Vandana Shiva, Eyal Weizman e Judith Butler, alcuni dei relatori che negli ultimi sei mesi sono intervenuti allo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia) per interrogarsi su alcuni dei temi più importanti della nostra contemporaneità—come ambiente, i rapporti di pace, i diritti umani, il capitale, la migrazione, l'asilo politico, l'Europa, l'estetica e la rivoluzione—Sassen è intervenuta, il mese scorso, con una conferenza dal titolo Quando le sfide fondanti della nostra epoca si materializzano in città.

Davanti a un'aula gremita di persone, la Sassen ci ha accompagnato in un viaggio attraverso i diversi territori e momenti delle sue ricerche sullo "stato delle cose" nella sociologia urbana e globale. All'indomani delle manifestazioni che sono e stanno avvenendo in tutto il mondo, questa è stata l'occasione per chiederle delle riflessioni rispetto alla crescente carica politica delle azioni nello spazio urbano delle città globali, rispetto a quella in declino degli Stati-Nazione. Il prossimo conclusivo appuntamento sarà con lo storico dell'arte T.J. Clark, sull'esperienza della sconfitta, il 17 novembre alle 18,30.
Photo Giulio Squillacciotti
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Claudia Faraone: Dall'epoca delle sue prime riflessioni sulla globalizzazione notiamo un'evoluzione dalla materialità dei processi globali alla scala urbana a una scala minore e militante: quella degli spazi pubblici della città. Parrebbe una svolta molto logica, se si considera che la globalizzazione ha ridotto il potere degli Stati tramite la disgregazione delle frontiere (materiali o meno), con una riproduzione del conflitto, un tempo internazionale, all'interno della città. In breve: innescando un conflitto urbano. Il terreno della politica di oggi sono le città in cui si è accumulata una massa critica e dove si sono realizzati azioni e movimenti significativi?
Saskia Sassen: Sì, questa svolta la vedo così, per quanto fin dall'inizio io abbia sostenuto che la crescente concentrazione del potere del capitale nelle città mondiali portasse anche con sé un significato più forte delle lotte contro la trasformazione borghese della città, in favore del potere degli immigrati e contro la brutalità della polizia. I conflitti locali che si verificavano a livello di isolato o di quartiere o di piazza erano secondo me conflitti globali… il costituirsi di un carattere globale tramite obiettivi estremamente locali, per cui si lottava localmente, spesso sentiti localmente, ma che si manifestavano in tutte le città della globalizzazione… Oggi le lotte e le manifestazioni di piazza hanno una capacità analoga di trasformare specifiche rivendicazioni locali in un movimento politico globale, al di là della diversità di ciascuna di queste società. Tutte queste lotte riguardano la profonda ingiustizia sociale delle nostre società, in Egitto e in Siria come negli Stati Uniti e in Spagna.
Il manifesto della conferenza di Saskia Sassen allo IUAV di Venezia, parte del ciclo The State of Things. Photo Claudia Faraone
Il manifesto della conferenza di Saskia Sassen allo IUAV di Venezia, parte del ciclo The State of Things. Photo Claudia Faraone
Oggi pare che la città sia diventata il luogo dove le tensioni esplodono (si veda il 15-M di Madrid oppure OccupyWallStreet, per non parlare di Roma – anche se l'Italia è un po' un caso a parte), mentre un tempo era considerata un luogo d'incontro, la scala locale in cui i conflitti si potevano gestire tramite azioni quotidiane (vita comunitaria, riposo, cibo, feste, acquisti) e attraverso la mediazione politica. È d'accordo? E, in caso affermativo, come commenta le reazioni molto poco convenzionali alle dinamiche globali messe in pratica dalla Danimarca (apertura all'immigrazione) e dall'Islanda (rifiuto di pagare il debito pubblico)?
Sì, sono d'accordo. Per andare dritta al punto… In ognuno di questi casi e in molti altri io vorrei affermare che la strada, la via cittadina in quanto spazio pubblico, va distinta dal classico concetto europeo di spazio ritualizzato destinato all'attività pubblica, con la piazza italiana e il boulevard francese a far da casi europei emblematici. Io credo che lo spazio della 'strada', che ovviamente comprende le piazze e qualunque spazio pubblico disponibile, in quanto spazio grezzo dove chi non ha accesso alle leve del potere fa la politica, faccia il sociale. La strada quindi può essere concepita come lo spazio in cui si fanno l'attività sociale e la politica, invece che come uno spazio dove mettere in scena abitudini ritualizzate. Forzando un po' il concetto si potrebbe sostenere che politicamente "la strada e la piazza" hanno un segno differente rispetto al boulevard e alla "piazza italiana": la prima espressione indica l'azione, la seconda la ritualità.
Photo Giulio Squillacciotti
Photo Giulio Squillacciotti
Oltre le folle che stanno "facendo la storia" (sono senza potere ma fanno la storia!), secondo la sua opinione e la sua esperienza, esistono altre specifiche prassi creative (o meno) adottate dagli abitanti dei quartieri che cercano di contrastare gli effetti della crisi attuale su scala locale, soprattutto nelle città dell'Europa meridionale?
Non posso parlare in particolare dell'Europa meridionale, ma l'ho visto accadere in molti luoghi differenti. Prendiamo New York, dove molte piccole iniziative, che possono sembrare sciocche a certi frigidi scienziati sociali, tuttavia qualcosa contano… A New York ci sono più di cento centri urbani di produzione agricola… Sono per lo più microinterventi sullo spazio cittadino, un numero sempre crescente di persone si fa un vanto di 'occupare' qualunque pezzo di terreno con verdura e piante. È bellissimo. Non basta, ma se consideriamo la moltiplicazione di questi tentativi in una vasta gamma di iniziative sostanziali, tramite un centinaio di piccoli interventi si può riuscire a mobilitare le persone, dando vita a un nuovo tipo di spirito civico.

Si è detto che la tecnologia è stata uno strumento fondamentale della protesta dei movimenti maghrebini e medio-orientali. Inoltre si è affermato che grazie alle mappe di Google i giovani potevano rendersi conto di "quanta" differenza ci fosse tra ricchi e poveri, e che tramite la tecnologia informatica (i blog e Twitter) le persone potevano comunicare evitando la censura e i sistemi di controllo obsoleti. Secondo la critica che lei fa del modello della Smart-City a paragone della sfera dell'interattività, è così che la tecnologia può diventare un fattore (positivo, di supporto) dell'urbanistica?
Sotto molti aspetti questo potrebbe essere considerato un uso che costituisce un'urbanizzazione della tecnologia. Ma voglio aggiungere subito che mi sembra un equivoco interpretativo diffuso sovrapporre indebitamente le possibilità di una tecnologia al processo di base che usa quella tecnologia. Quindi Facebook può essere fattore di eventi collettivi diversi: una manifestazione improvvisata, una festa tra amici, la rivolta di piazza Tahrir. Ma non è la stessa cosa dire che tutti si sono realizzati tramite Facebook. Per quanto ne sappiamo oggi Al Jazeera, per esempio, è stata un mezzo di comunicazione più significativo e, nel caso delle mobilitazioni di piazza Tahrir del venerdì, il contesto di comunicazione fondamentale è stata la rete delle moschee. Nella mia ricerca ho dedicato molto spazio a questo tema, a questa confusione (Sassen, Territorio, autorità, diritti, Mondadori, 2009; Latham e Sassen, Digital Formations, Princeton Press, 2005). La sovrapposizione indebita discende da una confusione tra la logica di una tecnologia in quanto progetto di un tecnico e la logica degli utenti. Non sono la stessa cosa. Le qualità tecniche della sfera dell'elettronica interattiva sviluppano la loro utilità tramite ecologie complesse, che comprendono sia variabili non tecnologiche (topografie sociali, soggettive, politiche, materiali), sia le specifiche culture d'uso dei vari attori.
Quando lei parla di open-source rispetto all'urbanistica, specialmente nell'ambito della critica della Smart-City, sembra sottintendere un duplice uso e un duplice senso molto interessante. Da un lato la tecnologia open-source è uno strumento per creare una rete di persone e di idee, in cui la città è sia scenario, teatro di eventi, sia simbolo dell'immaginario personale e mediatico. Dall'altro lato l'espressione open-source viene usata per definire un modo di fare urbanistica in cui i cittadini partecipano a un "farsi" della città in cui l'urbanistica è considerata una pratica politica. È d'accordo con questa interpretazione? Si potrebbe quindi dire che l'"urbanistica open-source" sarà un momento di passaggio? Un tentativo di mettere d'accordo l'incompiutezza e l'indeterminatezza dello scenario della città, in perpetua trasformazione grazie ai suoi attori (non sempre grazie ai suoi abitanti), con questi ultimi?
Sì, credo che lei abbia fatto un buon elenco di casi e di esempi… Si arriva un po' a questo. Ma penso che nella mia ricerca mi interessi di più l'evoluzione – la scoperta – di questo "momento di passaggio" e sì, ha detto bene, di questa incompiutezza e indeterminatezza della città. Ci vorranno conoscenze pragmatiche e tecniche, e ci vorrà anche del senso artistico!

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