Knowledge workers, quando la vita è il tuo lavoro

Quella del lavoratore della conoscenza è la figura professionale dei nostri anni, attorno a cui si riorganizzano non solo le relazioni sociali, ma le città e lo stesso concetto di tempo.Come lavoreremo?” è una delle domande del prossimo domusforum, che si terrà il 24 novembre.

“Un tempo si prendevano le droghe per evadere, adesso le si prende per restare concentrati”, racconta nel documentario Hai preso le tue pillole? il docente di Neurologia Anjan Chatterjee, facendo riferimento all’Adderall e agli altri stimolanti usati da studenti e professionisti. Allo stesso modo, si potrebbe dire che un tempo si andava alle feste per staccare dal lavoro, adesso ci si va per consolidare i contatti professionali, trovarne di nuovi e aumentare il proprio capitale sociale. Per far vedere che si è parte del giro o per provare a entrarci.

È una delle condanne che si autoinfliggono i cosiddetti knowledge workers: i lavoratori della conoscenza che popolano i quartieri gentrificati delle grandi città – simboleggiati, a Milano, dall’Isola, a Londra e New York da Soho, o Williamsburg  o Shoreditch– e che spesso danno l’impressione di vivere in una sorta di infinito videogioco: una volta conquistato un livello sociale, non si ha altra scelta che lottare per raggiungere il successivo. In una costante arrampicata che è fatta più di vernissage e aperitivi che di sotterfugi e coltellate alla schiena, ma che non per questo è meno sfiancante.

Foto di Tim Gouw da Unsplash

Prima di approfondire, bisogna però circoscrivere il campo. Chi sono questi knowledge workers? “In termini generali, sono i lavoratori che producono un significativo valore aggiunto grazie alla loro conoscenza e alle facoltà intellettuali”, mi spiega Marianna D’Ovidio, docente di Sociologia alla Bicocca di Milano. A differenza di quanto si tende comunemente a pensare, è una definizione che quindi non riguarda solo chi lavora con la cultura o la creatività: “Un tempo si parlava di knowledge, cultural and creative workers per contestualizzare meglio e far capire che in questa macrocategoria rientrano anche, per esempio, i medici o gli avvocati”.

Non è facile, al di là delle etichette, trovare un filo rosso che tenga nello stesso (enorme) calderone medici, esperti di finanza, artisti e guru del marketing. Gente che, sicuramente, non ha gli stessi interessi, non ha gli stessi compensi, non ha gli stessi orientamenti politici e non partecipa alle stesse feste. Cos’altro li tiene insieme, oltre al fatto di “usare la conoscenza sul posto di lavoro” (seconda la definizione del 1959 dell’economista Peter Drucker)? E se ad accomunare questi professionisti fosse il fatto di aver annullato qualsiasi barriera tra vita sociale e vita professionale, fondendole in un unico amalgama in cui si va alle feste per lavoro e si lavora nei giorni di festa?

“Non è una definizione rigorosa, ma nei fatti è spesso così”, precisa D’Ovidio. “Nel corso di una ricerca che ho svolto nel campo della moda, almeno due persone mi hanno segnalato come, quando prendono dei periodi sabbatici, non hanno più bisogno di andare alle feste”. In questo paradosso, colpisce soprattutto l’utilizzo del termine “bisogno”. Andare alle feste è una necessità di cui si fa a meno appena non è più necessario partecipare ai party a fini non anche, ma esclusivamente professionali. Ed è solo in questi periodi sabbatici che si può fare a meno della città, che per i lavoratori della conoscenza diventa un’infrastruttura sociale in grado di ospitare e radunare il network di riferimento, tra eventi, presentazioni, inaugurazioni e tutto quell’immaginario da New York di Andy Warhol. 

Foto di Kevin Chinchilla da Unsplash

“Tutti i lavoratori della conoscenza traggono fondamentalmente le stesse risorse dalla città”, prosegue D’Ovidio. “Per gli esperti di finanza e per i designer d’interni è altrettanto importante quello che, a volte, è stato definito come il sentiment della città, che si assorbe anche solo facendo il classico aperitivo tra colleghi nel locale frequentato dal proprio giro”. Uno degli aspetti centrali, probabilmente, è capire come sia cambiato nel tempo il ruolo della città: prima per via della possibilità di gestire e mantenere la propria rete di contatti anche online e poi in seguito alla forzata diffusione dello smart working, che – come ormai dimostrato – ha allontanato (temporaneamente?) una quota non irrisoria di lavoratori della conoscenza, probabilmente convinti di poter conservare i contatti anche a distanza.

“Come detto, fino al Covid il ruolo delle città era quello di riunire i professionisti impegnati a conquistare e conservare la loro reputazione”, prosegue Marianna D’Ovidio, che nel 2019 ha pubblicato uno studio proprio su questi temi con Alessandro Gandini. “Farsi vedere nel posto giusto mentre si parla con le persone giuste permette di acquisire una certa reputazione, che diventa un elemento cruciale per cogliere le occasioni che si presentano. Allontanandosi dalle città, magari a causa del Covid, si possono comunque mantenere, via social o altro, i contatti già creati, ma è molto più difficile costruirne di nuovi. Soprattutto, chi ancora non ha il proprio giro si trova tagliato fuori. In ogni caso, il capitale di relazioni che già si possiede può esaurirsi alla svelta: questi sono sistemi che viaggiano molto veloci e il rischio di perdere il treno delle occasioni è sempre presente”. 

È anche questo che porta all’esplosione di determinati quartieri, densamente popolati da lavoratori della creatività e dintorni. È una densità che agevola la creazione dei network, permettendo di essere immersi in quell’ambiente che bisogna coltivare. È la famosa “bolla”: termine abusato, ma utile per indicare una cerchia che soddisfa tutte le necessità socioculturali e che è quasi impermeabile alle influenze esterne. Un fenomeno che si mostra anche nella vita fisica, ma che è ancora più evidente sui social network, dove il capitale sociale e la reputazione si acquisiscono anche tramite i propri contatti. Essere seguiti su Twitter o Instagram da qualcuno che conta può essere il segnale che permette di aprire altre porte, sotto forma di commissioni o di altri contatti potenzialmente utili.

“Dimmi chi ti segue e ti dirò chi sei”, dunque. Con il rischio, però, che questo elemento qualitativo si trasformi per semplicità in quantitativo. Nell’epoca dei social, i lavoratori della conoscenza – e in particolare i lavoratori creativi – rischiano di essere giudicati sulla base del numero di follower. E se questi sono pochi, i lavori per i quali è importante anche la diffusione social – com’è il caso per esempio degli articoli o dei libri – potrebbero non venire commissionati o accettati, precludendo a loro volta la possibilità di aumentare il seguito. È il classico cane che si morde la coda?

Foto di The Creative Exchange da Unsplash

“Solo in parte”, replica D’Ovidio. “È innegabile che avere delle buone metriche sia importante per una certa fascia di professionisti della conoscenza. Nel mio caso, da accademica, guardo molto le menzioni su Google Scholar: se sono scarse devo correre ai ripari, inviare il paper ad amici, partecipare a conferenze, ecc. Ognuno si costruisce le sue metriche come preferisce e anche questo deve ormai rientrare nelle competenze”. A volerla leggere in stile Black Mirror, il lavoratore della conoscenza diventa però un po’ più simile a un oggetto venduto su Amazon o a un ristorante presente su Deliveroo, il cui successo dipende largamente dai punteggi e da altre forme di metriche quantitative.

Ma quanto può durare un gioco che richiede una dedizione totale, una lunghissima formazione, un’incessante caccia alla reputazione, un estenuante personal branding, la trasformazione in una sorta di startup di stessi ricevendone però in cambio trattamenti economici spesso sproporzionati (in negativo)? “Se volessimo spiegarlo con Marx, potremmo dire che il capitale tende a creare grosse aspettative in settori in cui far investire le persone”, conclude Marianna D’Ovidio. “Questo meccanismo, negli ultimi anni, si è concentrato proprio sul lavoratore cognitivo o creativo, mentre negli anni ’90 era la finanza a essere al centro dell’attenzione. Per alcune persone l’investimento necessario – economico, sociale, temporale – verrà ripagato, per la maggior parte invece no. I fortunati che hanno avuto successo continueranno ad attirare nuovi aspiranti professionisti. Ma una volta entrati nel gioco, c’è una reputazione da mantenere. E pur di farlo si è a volte disposti ad accettare qualunque condizione, fingendo che vada tutto benissimo”.

Immagine di apertura di Rawpixel

Guarda anche: Modern work, la nostra sezione dedicata a come cambia il lavoro
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