La casa di Gustave Eiffel in cima alla sua torre

L’ingegnere del monumento simbolo di Parigi, inaugurato con l’Esposizione del 1889, aveva progettato un appartamento per sé, al livello più alto: un luogo di sperimentazione, ma anche un prototipo di pianta libera modernista.

Tra gli entusiasmi e le polemiche, nel 1889 l’Esposizione Universale si apre a Parigi, celebrando certo il centenario della Rivoluzione Francese, ma soprattutto presentandosi al mondo con un monumento dalla natura perlomeno inedita: un traliccio in ferro alto 300 metri, piantato lungo la Senna, ai cui diversi livelli i visitatori potranno arrivare in ascensore, per ammirare il panorama della capitale, e il display del progresso industriale nazionale orchestrato a terra da Charles Garnier, nei diversi padiglioni che riempiono il Champ de Mars. In cima alla Tour Eiffel – è di lei che stiamo parlando – il progettista che le dà il nome potrà creare per sé un appartamento, utile per le ricerche sulla resistenza all’aria, ma soprattutto esperimento più o meno consapevole di una organizzazione degli spazi secondo un plan libre che Le Corbusier avrebbe teorizzato decenni dopo: è il layout strutturale a permetterlo, se non ad imporlo, caratterizzato com’è dalla presenza degli elementi reticolari spaziali in ferro, e dal passaggio del grande vano ascensore. Molto probabilmente Eiffel non vi ha dormito una sola notte, usandolo principalmente come spazio di rappresentanza dove ospiterà anche Thomas Edison in visita nell'anno dell’Expo; la visionarietà del suo concept  veniva invece esplorata su Domus nel settembre del 1981, sul numero 620.

Domus 620, settembre 1981

Il Belvedere di Eiffel

Una variante progettuale e l’assenso dei commissari dell’Expò del 1889 permise a Gustave Alexandre Eiffel di riservare a se stesso quella parte del belvedere della “Tour de 300 metres” ingombrato dai contrafforti finali e dai locali di servizio del più complesso ascensore della storia. Si trattava dello spazio quadrato – dieci metri circa di lato – sollevato di un piano rispetto al livello della terza piattaforma e situato al di sotto delle grandi travi diagonali del delicato sistema di incernieratura superiore.

Questa decisione, di costruirsi una casa, sia pur per scopi particolari (alcuni locali dovevano infatti servire alle ricerche sulla resistenza dell’aria), in cima al monumento della propria nazione e ad atmosfere architettoniche mai prima di allora raggiunte, obbligò il risoluto usufruttuario e progettista ad accantonare ogni soluzione formale o costruttiva che non potesse fare i conti con quelle altitudini e col vento della “ville”. Anche per non dover assistere anzitempo al crollo del sogno di una vita, di quello che sicuramente fu il vero motivo ispiratore di tanto ardito programma: l’inconscio desiderio di poter vedere il contorno abitato della propria illustre esistenza di inventore finalmente sottratto al terrificante e muto deserto di pietre del labirinto della storia e di poterlo ammirare, in splendido isolamento, soltanto contro l’avventurosa vastità del cosmo. E poco male se, per ottenere questo risultato, l’oggetto dei suoi più intimi pensieri potrà apparire a qualcuno il parassita architettonico della sua maggior impresa.

Il vero dato, che fa di questo singolare “logement” un “caso architettonico” rimasto fino ad oggi misteriosamente archiviato nonostante l’eccezionalità del simbolo di cui fa parte, è quello di aver, nella probabile inconsapevolezza del suo autore, indicato ed anticipato le linee di una ben più importante “transformazione”.

Domus 620, settembre 1981

Con la liberazione dello spazio di questa casa dal millenario basamento tellurico il “Vers une architecture” di Le Corbusier era infatti qui, a trecento metri di altezza, già iniziato. Una pianta dalla chiara intelligenza astratta poteva poi tranquillamente confermare queste prospettive e annunciare nuovi imprevedibili spossessamenti spaziali. L’adozione di un sistema costruttivo aereo, che traeva la sua ancor confusa ed ingenua libertà dal groviglio senza fine della nuova esistenza tecnologica salita nel cielo di Parigi, donava infine la certezza dell’inevitabilità di un divenire che nessuno poteva esattamente prevedere. Certamente, chi rifiutava di riconoscere le indubbie novità di questo “logement” – un “abitacolo spaziale” per quei tempi più che una “casa dei terrestri” – e di concedergli credito per il futuro, già allora mostrava di non capire le ragioni storiche di quel “Locus Solus” tecnologico che Raymond Roussel non tarderà a mettere in luce.

A parte il fatto di non riuscire comunque ad evitare il rumore derivante da tanta impresa, chi vi si opponeva diventava, consapevolmente o inconsapevolmente, prigioniero di quella palude di sogni deliranti di “progresso passato” che il dilettantesco e irresponsabile storicismo di Charles Garnier aveva creato giusto ai piedi della Tour-Soleil”. Ma era proprio questa “Histoire de la maison” e i suoi poco attendibili padiglioni che Eiffel aveva voluto contestare attrezzando il primo dei “vaisseaux-fantôme à habiter” dei tempi nuovi. Già, scegliendosi una differente ombra (la torre) che non fosse quella millenaria della casa, questo dimenticato “logement” aveva tra l’altro iniziato a porre in discussione la raffigurazione interna ed esterna di quella, ed il suo autore aveva mostrato di preferire l’“ombra” alla “preda”. I disegni della pagina a lato sono tratti dal libro Gustave Eiffel, “La Tour de trois cents mètres”, Paris, 1900; le illustrazioni dal libro Jean A. Keim, “La Tour Eiffel”, 1950.

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