Munari allo specchio: padre e figlio in dialogo su Domus

Nel 1986 veniva dedicata a Bruno Munari, padre italiano del “buon design”, una grande mostra a Milano, e in quell’occasione, sulle nostre pagine, il figlio Alberto, psicologo, lo “interrogava” su infanzia, arte, creatività, vita.

“Non ci deve essere un'arte staccata dalla vita, cose belle da guardare e cose brutte da usare”: questa frase così solo apparentemente evidente – in realtà una presa di posizione netta e non maggioritaria su arte, utilità, estetica ed esistenza – basta a illuminare tutta la profondità necessaria a produrre opere semplici, leggere come quelle di Bruno Munari. All’artista, designer, grafico inventore – che nel 1943-44 era stato anche art director di Domus – viene dedicata nel 2024 una grande mostra a Parma, ma già nel 1986, con lui ancora in vita, si era celebrata l’importanza della sua azione del suo pensiero con una mostra al Palazzo Reale di Milano. Per Domus era stata l’occasione di ospitare – sul numero 677 uscito ad aprile – un dialogo tra Munari e il figlio Alberto dove, tra i disegni di pietre miliari come la struttura Abitacolo, o le grafiche per Einaudi, prendevano forma le ragioni di un fare arte che significava arricchire la vita con l’immaginazione.

Domus 677, novembre 1986

Munari interroga Munari in occasione della mostra milanese a Palazzo Reale

Alberto Munari, figlio di Bruno, psicologo, successore di Piaget alla cattedra di Ginevra, intervista il celebre padre sull’infanzia, sull’arte, sulla creatività, sulla vita. Ne esce un Munari allo specchio, un ritratto “duplice”, insolito e affascinante.

Alberto Munari: In Che momento della tua vita hai “saputo” che la tua strada era quella dell’artista? E come l’hai saputo? Era solo un desiderio, all’inizio, o qualcosa di più? Un sentimento, una convinzione interiore? Sentivi già di avere qualcosa di originale da esprimere? “Sapevi” che saresti riuscito a fare qualcosa di importante? Avevi già allora il desiderio di lasciare una traccia personale nella storia dell’arte e delle idee?
Bruno Munari: Non c’è stato un momento, nella mia infanzia e nella mia vita, in cui mi sono accorto che la mia strada sarebbe stata quella dellartista. C’è sempre stata una specie di “dissolvenza incrociata” tra la vita normale di paese (ero fino a diciotto anni a Badia Polesine) e una mia attività che oggi si definirebbe “Creativa”, provocata dalla curiosità e dalla voglia di fare qualcosa di diverso dal solito. Da ragazzo (e tanto meno da bambino) non ho mai avuto giocattoli come oggi hanno tutti i bambini, però me li inventavo e li costruivo con quello che trovavo: un ramo biforcato e due elastici di gomma diventavano una fionda, con dei ritagli di legno si possono costruire molte cose, qualcosa era solo ricostruito ma ogni tanto qualcosa era inventato. Avevo sempre in tasca un temperino molto bene affilato, col quale mi divertivo a tagliuzzare rametti secchi e assicelle di pioppo oppure canne palustri. Le canne mi hanno sempre interessato molto per la loro natura, per il vuoto interno chiuso, ogni tanto, da un diaframma. Tagliando le canne secondo la loro natura venivano fuori oggetti diversi (chissà se questa esperienza giovanile mi è servita quando ho disegnato vasi di bambù per i giapponesi?). Un altro materiale molto usato allora dai ragazzi era il sambuco con il suo midollo elastico che permetteva di costruire tante cose. In quel periodo avevo uno zio liutaio ed io ero spesso nel suo laboratorio a vedere come curvava le lamelle di acero per fare la curva laterale dei violini: bagnava queste lamelle di acero e le appoggiava poi su di una superficie metallica curva, scaldata con una fiammella ad alcool, per curvarle. In questo laboratorio potevo prendere dei ritagli di legno, tenerli fermi con la morsa e lavorarli con le sgorbie bellissime e affilatissime dello zio Vittorio. Mi piaceva moltissimo lavorare con i materiali e gli strumenti artigiani, mi piaceva molto di più che non aiutare i miei genitori nella loro attività alberghiera. Mi piaceva lodore e il tatto del legno, l’odore delle vernici che lo zio si costruiva con la gomma lacca per lucidare i violini, mi piaceva costruire, tagliare, incollare, progettare. Avevo anche due amici che dipingevano, e qualche volta andavo con loro, a copiare paesaggi dal vero, olio su tela. Facevamo dei piccoli quadretti che poi esponevamo nella vetrina del cartolaio del paese.

Come fai a sapere quando un lavoro (quadro, oggetto, design grafico, ecc.) è “finito”? Quando cioè non vi è più niente da aggiungere o modificare? Quando è “giusto”? E poi, in che misura questi stessi criteri possono servirti per apprezzare un lavoro fatto da altri? Inoltre, questi criteri possono essere insegnati?
Come si fa a sapere quando un quadro o un altro lavoro è finito? Per il lavoro del design potrei dire: quando tutte le componenti del problema sono risolte bene e assemblate con coerenza. E queste componenti sono materiche, tecnologiche, formali, spaziali, economiche, cromatiche, psicologiche, e naturalmente funzionali... Quando hai trovato i materiali più giusti per costruire quell’oggetto, le tecnologie più adatte a quel materiale scelto, la forma più giusta che ne consegue, quando l’ingombro è minimo e la funzionalità è massima, quando a parità di funzioni costa meno, quando la lavorazione di progettazione è la più semplice, quando la cosa non ha bisogno di manutenzioni speciali, quando la gente capisce subito che cosa è e a che cosa serve, quando laspetto estetico è “naturale” come quello di un insetto o di un fiore, e non appiccicato dopo. Quando, a parità di funzioni, più semplice di così non si può fare. Questo è il metodo che io credo, per ora, il più giusto per progettare bene, ed è anche insegnabile, dato che è basato sulla logica. Mentre per ciò che riguarda l ’estetica si tratta, io credo, di formarsi una cultura viva senza confini e più vasta possibile nel senso storico-geografico.

Come si fa a sapere quando un’opera d’arte è finita? Qui il problema è più rivolto verso una sensibilità personale, che può essere educata e coltivata da una continua informazione storico-geografica dei moderni sviluppi dei modi di fare l’arte, delle sue tecniche e regole continuamente inventate. E anche dalla conoscenza di come si forma la forma in natura, gli studi di bionica sono di grande aiuto alla formazione di un pensiero progettuale artistico orientato alla essenzialità dei mezzi e alla messa a fuoco del messaggio estetico artistico e soggettivo. E questo si può anche insegnare in parte, cominciando alle scuole materne, abituando i bambini a non essere superficiali, ad affinare l’osservazione sulle forme e le strutture di ciò che abbiamo attorno a noi (vedi gli esercizi sugli alberi e le loro strutture). Si tratta di orientare la curiosità infantile innata (che poi è bene conservare dentro di sé per tutta la vita) e impedire la formazione di stereotipi che impediscono di capire come le cose realmente sono.

Domus 677, novembre 1986

Che posto occupano, nell’insieme di tutta la tua produzione, i laboratori per bambini? In che misura possono essere considerati una conseguenza logica del tuo lavoro precedente? Una conseguenza necessaria? Quali considerazioni sulla pedagogia dell’arte potresti esprimere, ora che l’esperienza dei laboratori è ben avviata? In che misura questa esperienza ha modificato le idee che avevi prima sulla pedagogia dell'arte, sul mestiere d’artista e/o designer, sui bambini? Le cose che hai imparato da questa esperienza in Giappone e in Venezuela, sono diverse da quelle che hai appreso dall’esperienza dei laboratori in Italia?
È per questa ragione, io credo, che i laboratori per bambini sono una logica conseguenza di tutto il mio lavoro fino a oggi, io penso che una semplice maggiore attività in questo campo, sia da parte delle richieste che vengono da vari Paesi, sia per la collaborazione di molti giovani, aiuti a formare e a sviluppare nel modo migliore la personalità dei vari individui delle nuove e nuovissime generazioni. Ho notato che i bambini di qualunque nazione: Italia, Svizzera, Giappone, Venezuela, Spagna, Israele, Stati Uniti, Francia... reagiscono tutti nello stesso modo, capiscono subito e fanno, salvo piccole differenze locali. Ai bambini piacciono le regole e queste, anche la più semplice, danno sicurezza: i giochi infantili hanno tutti una regola. Se noi adulti riusciamo a spiegare attraverso una semplice regola, un problema di progettazione semplice, diamo ai bambini il mezzo per esprimersi, giocando... a disegnare un albero, per esempio.

 L’editore Zanichelli ha pubblicato un libretto intitolato “Alberi disegnati dai bambini secondo il metodo Munari” dove si può constatare come questo metodo semplice dia ottimi risultati, senza bisogno di raccontare delle favole sciocche come fanno molti adulti quando si rivolgono ai bambini. I bambini sono intelligenza allo stato puro e hanno i recettori sensoriali tutti aperti e in funzione. Stimolando con azioni dirette la loro curiosità di conoscere per fare, si può comunicare con bambini di ogni nazione. Ti ricordi nel 1972 alla scuola materna dell’Onu a Ginevra, dove andava anche tua figlia Valeria, quegli incontri informali con i bambini di tutte le nazioni, bambini di ogni tipo ma tutti con gli occhi attenti, pronti a capire e fare quello che avevano visto fare da noi. Già tra di loro questi bambini, figli dei dipendenti dell’Onu, giocavano assieme senza bisogno di spiegare a parole un gioco. Un bambino mostrava come si fa e gli altri volevano subito provare a fare. Ecco il metodo.

Domus 677, novembre 1986

Quali sono i lavori, i temi, le problematiche, ecc., che senti il bisogno di sviluppare ora? Cosa senti di non aver ancora sufficientemente capito, e che vorresti capire meglio? Cosa pensi di aver insufficientemente sviluppato, e che vorresti sviluppare di più? Cosa pensi di aver sbagliato, e che vorresti riprendere e correggere? Quali nuove esplorazioni vorresti intraprendere, in campi che ancora non hai toccato?
Per mia natura sono sempre pronto a modificare il mio pensiero se trovo delle ragioni logiche che mi fanno capire dove ho sbagliato. È con questa continua verifica che si annullano le idee fisse e si migliora sempre la progettazione. Sono sempre stato attratto da diversi campi di attività, molto diversi anche da quelli nei quali normalmente opero. Un nuovo materiale, una nuova tecnologia, nuovi strumenti per produrre immagini, mi invitano alla sperimentazione, con la quale si arriva a conoscere più profondamente tutto ciò che farà poi parte della progettazione intesa in senso globale. Naturalmente non posso seguire tutto da solo. Per certe ricerche speciali o per problemi più vasti, di solito io formo dei gruppi di lavoro composti da esperti, specialmente nei casi dove io non ho abbastanza conoscenze. In questo modo io posso coordinare un lavoro di gruppo mantenendo una coerenza progettuale in modo soddisfacente. Il lavoro che io considero, per ora, il più importante come progetto di design, è quello della messa a punto continua di un metodo didattico per la stimolazione della creatività infantile. Per la realizzazione di sempre nuovi laboratori per bambini in varie parti del mondo, nei musei e nelle grandi mostre. Adesso sto mettendo a punto un laboratorio per bambini sul design, su come si fa a progettare, cominciando dalla scuola materna con la conoscenza dei materiali e delle loro qualità. Già questo è un bel gioco interessante per i bambini. Questi laboratori per bambini, quello di Brera nel 1977 sulle arti visive, quello di Faenza sulla ceramica, quello sulla stampa fatto a Imperia, quello tattile annesso alla mostra “Le mani guardano” che veniva dal Beaubourg, quello sulla carta, quello sul teatro e molti altri; sono in certi casi diventati un servizio sociale per le scuole e anche per gli anziani oltre che per i bambini.

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