Marc Newson e il mini-jet individuale, vent’anni fa

Due decenni prima della ritirata di Apple dai veicoli elettrici e dei meme sul jet di Taylor Swift, il designer australiano aveva guardato al volo e all’aria come parole d’ordine per democratizzare la mobilità, e ne aveva discusso con Domus.

Marc Newson non si è quasi mai negato un settore in cui spingere la sua ricerca, in una visione del design totale e trasversale incrociando in molti aspetti quella della Bauhaus, per poi contaminarla con fattori espressivi propri della genesi delle forme nell’arte. Anche il futuro della mobilità, oggi tema mainstream e quotidiano, era per lui un campo di confronto già nel 2004. Ma se oggi la cronaca racconta le retromarce di Apple da progetti quasi decennali su veicoli elettrici a guida autonoma, o il dispiego di logistiche di superstar come Taylor Swift che diventano meme globali, il pensiero dietro al mini-jet individuale K40 che Newson presenta in Fondation Cartier a Parigi è quello di una mobilità democratizzata che includa anche lo spazio aereo, una messa in prospettiva non indifferente di un discorso che in pochi anni è stato protagonista di una grande evoluzione. Domus discuteva questo progetto col designer nel febbraio di quell’anno, sul numero 867,  in un approfondimento dal titolo già suggestivo di Welcome to the Jet Age.

Domus 867, febbraio 2004

Mini jet: le automobili del futuro?

Il progetto del designer australiano Marc Newson di un concept jet, esposto a Parigi alla Fondation Cartier pour l'art contemporain, ci introduce in una nuova era dell’aviazione individuale.

Come diceva Marcel Dassault (il più importante costruttore di aerei francese), “Un aereo per volare bene deve essere bellissimo”. Nell’anno dei festeggiamenti per il primo centenario dell’aviazione, il volo individuale torna ad essere celebrato come uno dei temi centrali della mobilità diffusa, pur nella sua versione contemporanea: mini jet come mezzi per il trasporto di massa. Non più costretta nella griglia di un sistema prestabilito e irrigidito in percorsi obbligati (il modello “hub and spoke” che costringe a frammentare il viaggio in una sequenza irregolare e in una gerarchia irremovibile di tratte a lunga percorrenza e di tratte minori), la libertà di movimento si esprime nelle forme filanti di mini jet che, per molti aspetti, rappresentano una versione addomesticata dei caccia militari. Se, nel dopoguerra, la comparsa di jet nell’aviazione commerciale ha generato l’immaginario lussuoso di un’intera categoria sociale (il jet-set), l’idea dell’aviazione individuale ha invece oggi a che fare con una concezione molto più pragmatica: il lusso - infatti - sta tutto nella libertà di movimento. Il progetto di Newson anticipa una realtà molto vicina: negli Stati Uniti, l’affermazione dei mini jet è già oggi percepita come una reale rivoluzione nel trasporto di massa. Industrie aeronautiche come Cessna, ATG, Eclipse, hanno in programma di lanciare a breve sul mercato jet non molto più grandi di una berlina, destinati essenzialmente al business, ma anche al divertimento. L’affermazione dell’aviazione individuale è sostenuta da programmi quali ad esempio il SATS (Small Aircraft Transportation System) promosso dalla NASA. Varato nel 2001 dal Congresso degli Stati Uniti, il SATS punta sull’aviazione individuale per rimodellare il sistema della mobilità nazionale. Come l’automobile ha rappresentato il mito della libertà di movimento nel XX secolo, così il mini jet - versione alleggerita dei grandi aerei a reazione che sostengono il peso dell’aviazione commerciale - è il nuovo simbolo della democratizzazione della mobilità.

Domus 867, febbraio 2004

“...Ma, in quel periodo, nel 1969, ci si accorse improvvisamente che il quinto diagramma del palinsesto dei trasporti era già stato tracciato, non nella fantasia, ma nei fatti. Era nell’aria, sopra la testa degli angeleni, ma non si trattava dell’elicottero che pianificatori e visionari di professione erano portati ad aspettarsi. Retrospettivamente, si può ora vedere che, in una città così scarsamente urbana come Los Angeles, la risposta poteva essere con ogni probabilità trovata nell’ambiente campagnolo piuttosto che in quello convenzionalmente cittadino, e quel che gli angeleni potevano osservare sopra le loro teste era di solito il più ‘campagnolo’ degli aeroplani, il Twin Otter, progettato per attraversare le foreste dell’entroterra canadese. Come aereo urbano per pendolari, possiede il fondamentale pregio rurale di decolli ed atterraggi brevi (STOL) che gli consente di operare dagli angoli fuori mano degli aeroporti maggiori o dai piccoli campi d’aviazione privati e municipali, assai più economicamente di qualunque elicottero, e di girare a piacimento nel corridoio libero sotto i congestionati spazi superiori. Facendo volare questi apparecchi, linee aeree come la Cable e l’Aero-Commuter stanno già offrendo - nel momento in cui scrivo - una dozzina di voli giornalieri tra l’Aeroporto Internazionale di Los Angeles e le fermate di Fullerton, Burbank o El Monte, e circa il doppio verso l’altro Aeroporto Internazionale ad Ontario. In altre parole, l’aereo-bus urbano esiste ed è in servizio regolare a Los Angeles. Come per il Miracle Mile, Los Angeles ha realizzato ciò che sempre si dice di voler fare, ma che raramente avviene nei fatti: indicare il prototipo per una nuova soluzione...”  Reyner Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie (Costa&Nolan, Genova 1983)

Ci parli del K40. Il jet vola davvero?
È la prima domanda che tutti mi fanno... ma non è esattamente la questione centrale del progetto che - ci tengo a precisare - è quello di un concept jet. Anche le case automobilistiche realizzano sia macchine che vanno in produzione, sia concept car dotate di vita autonoma, che a volte - ma non sempre - vengono usate per mettere a punto la produzione dei nuovi modelli. Naturalmente è ovvio domandarsi se il mio jet funziona... ma la sua origine è tutt’altra.

L’idea del progetto è nata da un mio vecchio sogno: quello di costruire un aereo. Fin da bambino collezionavo jet, e passavo il tempo all’aeroporto a guardare gli aerei che prendevano il volo e atterravano. Ho sempre subito il fascino degli aerei e dei mezzi di trasporto in generale (ho disegnato un’automobile e una bicicletta); non a caso, il 60% del mio lavoro ha a che fare con l’industria aeronautica, anche se si tratta essenzialmente di progetti d’interni.

Così, quando si è presentata l’occasione di lavorare a un nuovo progetto con la Fondation Cartier, ho scelto di sviluppare un’idea che fosse interessante sia per me, che per loro. Frequentando l’industria aeronautica, avrei potuto confrontarmi con le sue regole presentando il progetto a Le Bourget, a Farnborough, o ai i più importanti air-show del mondo. Ma mi interessava soprattutto presentare questo progetto all’interno di un contesto ‘culturale’. Un tipo di contesto dove solitamente ci si aspetta di vedere qualcosa di simile a una scultura… e in verità io credo davvero che un aeroplano abbia una qualità molto simile a quella di una scultura; che per molti versi ci assomigli.

So che ha collaborato con Onera (l’Office National d'Etudes et de Recherches Aérospatiales) e che per modellare l’aereo ha lavorato a lungo nella galleria del vento sottoponendo a molte verifiche la forma del jet. Cosa può dire di aver scoperto, anche dal punto di vista morfogenetico, usando questo tipo di strumenti di controllo?
Quello che si scopre con questo tipo di test è qualcosa di molto ‘sottile’, dato che non è in questione il fatto di volare o meno. Non è questo il punto. In realtà con un motore sufficientemente potente, si è oggi in grado di far volare anche il frigorifero di casa. Essenzialmente i test hanno a che fare con l’ottimizzazione della forma, in altre parole servono a migliorare la sua funzionalità.

Lavorando con Onera è stato possibile affrontare due tipi di prove differenti. La più tradizionale ti permette di vedere il comportamento della forma rispetto ai flussi: è la classica prova all’interno della galleria del vento. Poi ci sono le simulazioni digitali e le prove di fluidodinamica computerizzata, che sono molto sofisticate e straordinariamente belle… ti fanno pensare a un lavoro d’arte.

Domus 867, febbraio 2004

Queste prove hanno condizionato l’elaborazione formale del suo aereo?
Oltre a questioni puramente tecniche - che sono il vero scopo di questi test - il loro risultato è l’immagine finale del progetto: qualcosa di fantastico… che ti lascia incantato. Vi sono, in altre parole, due aspetti: uno di tipo culturale e uno puramente conoscitivo.

Tornando alla forma attuale dell’aereo: abbiamo compreso come metterla a punto simulando il suo comportamento in condizioni reali. In ogni caso si tratta di un passaggio necessario affinché un progetto di questo tipo possa diventare reale.

Cosa pensa dei progetti reali come quelli dei mini jet che verranno messi sul mercato a breve da aziende private come Eclipse, Cessna, o per esempio Atg (tra le prime a lanciare sul mercato un mini jet biposto come il Javelin)?
Penso che sia un momento interessante perché per la prima volta l'industria aeronautica si trova a che fare con motori a reazione di piccole dimensioni ed economicamente accessibili, mentre prima potevano essere usati solo per jet privati che costavano decine di milioni di dollari.

Fino ad oggi i piccoli aerei montavano per lo più motori a elica, a eccezione degli aerei militari. Anche il nostro aereo monta un piccolo motore di tipo militare, dato che il progetto nasce dalla collaborazione tra Snecma e Turbomeca; entrambi ci hanno aiutato, dimostrando come questo genere di competenze possa essere usato non solo per aerei militari. È un personal jet a due posti con un solo motore, con performance migliori di qualsiasi altro piccolo aeroplano a elica. Ma è anche più bello, più veloce, più efficiente, e molto più divertente. Rappresenta una naturale evoluzione: il passo successivo. Al contrario mi sembra strano che sul mercato non esistano ancora mini jet a costi accessibili, destinati a chi ama volare per divertimento e non soltanto per affari…

Domus 867, febbraio 2004

Se prendiamo in considerazione i mini jet realizzati, quasi tutti sembrano una versione ‘civile’ dei caccia. Anche quelli più avveniristici e immaginifici. Per esempio, anche il Bd5j di Jim Bede, quello con cui James Bond volava in Octopussy, era un classico “proiettile con le ali”; in questo senso adottava un modello tradizionale… Il progetto di K40 è diverso: sembra piuttosto ispirarsi ai Drone o agli aerei invisibili, la cui forma è pensata per sfuggire alla lettura dei radar. C’è in questo una diversa concezione dell’aerodinamica?
Bisogna tener conto che è passato un bel po’ di tempo da quando il Bd5j è stato disegnato: ma allora era all’avanguardia. È curioso sentir citare il Bd5j. Spesso mi chiedono qual è la mia fonte di ispirazione e mi rendo conto di non essere stato particolarmente influenzato dal lavoro di altri designer, ma piuttosto dai film, dalla cultura popolare, da quella dei fumetti. In particolare sono stato molto colpito dal lavoro di personaggi come Ken Adam, che non è solo un ingegnere, ma il production designer dei film di James Bond; o da quello di Raymond Loewy, che è stato un designer del tutto fuori dalla norma, che ha attraversato molti campi di ricerca. Mi piace molto anche Syd Mead, anche lui un set designer, con una visione proiettata verso il futuro; a parte i set di Alien e Star Trek, il suo lavoro più noto è il set di Blade Runner, anche se personalmente non penso sia la sua cosa migliore. Com’era successo per Loewy, anche Mead è stato chiamato dalla Nasa come consulente: il che dimostra che troppa razionalità può uccidere un progetto. La verità è che mi interessa sempre di più lavorare lungo il confine che separa la finzione dalla realtà. Per me non avrebbe alcun senso affrontare questo tipo di progetto come farebbe un ingegnere aeronautico, ma piuttosto considerare altri punti di vista; che è poi quello che faccio con tutti i miei progetti. Quando ho disegnato un’automobile, non ne avevo mai disegnata una prima. E credo che questo avvicinamento creativo alla tecnica sia interessante e utile non solo per me, ma anche per il cliente che mi commissiona un progetto. Invidio agli artisti la loro incredibile libertà d’azione e di controllo: nessuno mette in discussione quello che fanno. In un certo senso mi piace prendermi quel tipo di libertà d’azione, anche se su altri fronti.

In effetti, considerando l’aerodinamica del K40, è più facile vedervi riferimenti fantascientifici, come le auto spaziali della famiglia dei Jetsons o dei Super jetter…
Ho cercato di interpretare questo progetto seguendo la mia immaginazione, guardandolo con i miei occhi, anche se ho mantenuto una costante attenzione alla realtà tecnica del volare. È divertente cercare di comprendere fino a che punto puoi spingerti lontano dalla realtà. Come ho già detto, in fondo far volare qualcosa non è poi così complicato, la questione è spesso sottilmente accademica: si dicono molte banalità sull’aerodinamica, mentre può accadere che la forma più aerodinamica sia la meno governabile, oppure che un aereo perfettamente manovrabile sia assai poco aerodinamico. Esistono anche strane contraddizioni: un aliante - ad esempio - ha un’aerodinamica migliore di qualsiasi altro tipo di velivolo, pur non essendo quello più manovrabile. Se prendiamo in considerazione le ali, i timoni, le parti che forniscono l’ascensione, bene, sappiamo che in un jet sono ridotte al minimo… Insomma, le variabili in gioco sono molte e ogni previsione o simulazione deve fare i conti con un sistema caotico, che puoi controllare solo in parte.

Domus 867, febbraio 2004

Quali sono gli obiettivi e i punti chiave del Sats (Sistema di Trasporto per Piccoli Aeromobili)?
Grazie ad un sistema che prevediamo sarà a pieno regime intorno al 2015, saremo presto in grado di muovere persone e merci “point to point” e molto rapidamente. E a quel punto, la domanda di movimento potrà addirittura superare le capacità di risposta del sistema.

Il progetto Sats riguarda lo sviluppo di tecnologie che permetteranno a un normale pilota di muoversi con il massimo agio in un ambiente ad alta densità di traffico intorno agli aeroporti, e di atterrare tranquillamente in condizioni di scarsa visibilità. I nostri obiettivi sono la gestione di grandi volumi di traffico negli aeroporti, la semplificazione delle operazioni d’atterraggio, il miglioramento delle performance dei singoli piloti, la garanzia della massima sicurezza. Adotteremo in molti casi tecnologie già esistenti, utilizzate in altri progetti e programmi, e le adatteremo ai piccoli aeroplani. Stiamo anche valutando la redditività di queste tecnologie.

La mobilità individuale e il trasporto di massa fu rivoluzionato nel XX secolo dall’affermazione dell’automobile. Cosa potrà succedere nel XXI secolo?
Gli americani in genere associano l’idea di libertà alla facoltà di muoversi liberamente: ecco perché l’automobile ha avuto un impatto così profondo sulla cultura americana. L’idea di un piccolo aeroplano a reazione, pilotato da un normale pilota, avrà un impatto simile e altrettanto profondo. Nella prima fase, il programma Sats prevede che si sviluppi un servizio di aerotaxi, grazie al quale i piloti professionisti opereranno su richiesta dei clienti. L’idea è che una famiglia della media borghesia americana, composta da quattro persone, possa permettersi in media due vacanze all’anno utilizzando il servizio di aerotaxi. E questo potrebbe già avvenire tra dieci anni. Il costo, per una famiglia media, non dovrebbe essere superiore a quello di un biglietto aereo di un tradizionale viaggio effettuato secondo il sistema “hub and spoke”. Ma il vantaggio sarebbe di viaggiare “point to point”, partendo dal più vicino aeroporto locale per arrivare alla pista di atterraggio più vicina al luogo di destinazione. Allo stesso prezzo, si avrà il vantaggio di viaggi più brevi e orari più flessibili.

Come potrà convivere il sistema “hub and spoke” con il nuovo modello “point to point”?
Penso che continueranno ad operare in parallelo. Le grandi compagnie aeree rispondono sempre meglio ai bisogni del trasporto individuale. Resta un modello ideale, se si vive vicino ad un grande scalo commerciale. Secondo i nostri dati, però, meno della metà della popolazione abita oggi a mezz’ora di distanza da uno scalo, mentre il 95% circa degli americani vive invece a più di mezz’ora da un aeroporto locale di media grandezza. Quindi ipotizziamo che i due sistemi vadano avanti in parallelo ancora per decenni. Come risulta da recenti studi, negli Stati Uniti esistono circa 3.500 piccoli aeroporti pubblici, con piste d’atterraggio che variano dai 900 ai 1.500 metri di lunghezza.

Domus 867, febbraio 2004

Come saranno messi in condizione di operare questi piccoli aeroporti?
Una volta adottata la nostra tecnologia, basterà installare negli aeroporti un semplice computer al Pentium e, eventualmente, un sistema supplementare di telecomunicazione. Gli aeroplani saranno in grado di navigare verso l’aeroporto utilizzando i sistemi Gps già esistenti. La dotazione per attrezzare gli aeroporti dovrebbero essere, quindi, veramente minime.

Il progetto Sats è sostenuto da fondi governativi?
Istituire una partnership tra pubblico e privato era - fin dall’inizio - un nostro obiettivo. Stiamo lavorando con industrie aeronautiche, amministratori di aeroporti, università… persino con l’industria automobilistica: cerchiamo di assemblare tecnologie di navigazione e di comunicazione diverse, che queste istituzioni private hanno sviluppato nel tempo in modo indipendente. Inoltre cerchiamo di imparare da loro come costruire i veicoli in tempi rapidi e a basso costo. Il Consorzio Nazionale per il Traffico Aereo (Ncam) è partner della Nasa in questo progetto. Del Ncam fanno parte circa 130 istituzioni (tra università ed associazioni), 45 delle quali collaborano attivamente all’attività di ricerca e sviluppo. Tutti i fondi che la Nasa mette a disposizione per lo sviluppo di nuove tecnologie trovano un corrispettivo, dollaro per dollaro, nei contributi dei soci privati; perciò non sarebbe esatto dire che la Nasa finanzia tutto. È una svolta rispetto al passato.

In concreto, quali sono i risultati raggiunti in questi tre anni di vita dal programma Sats?
Abbiamo sviluppato tecnologie di navigazione destinate agli aeroporti locali, per metterli in condizione di operare in ogni condizione di visibilità. È essenziale che un aerotaxi possa atterrare in estrema sicurezza negli scali locali, anche in condizioni di visibilità ridotta. E stiamo elaborando una tecnologia di visione sintetica, grazie alla quale il sistema di posizionamento globale dell’aereo comunica al computer la posizione del velivolo, carica i dati dell’aeroporto di destinazione e trasmette una rappresentazione del campo di atterraggio ad un display di volo sul quadro di comando del pilota, visualizzando la pista d’atterraggio dall’angolazione in cui si trova l’aereo. Nella fase di avvicinamento alla pista, l’immagine sintetica è continuamente aggiornata fino a trasformarsi in una visuale combinata, in cui un radar a raggi infrarossi o a onde corte fa ‘vedere’ al pilota l’aeroporto, anche se l’occhio umano non lo percepisce. Stiamo anche sviluppando tecnologie di auto-separazione degli aeroplani per poter operare in spazi a grande densità di traffico aereo. Se si arriva ad un aeroporto, ma si è poi costretti ad attendere un’ora prima di atterrare, i vantaggi del volo “point to point” si bruciano. Intendiamo trovare il modo per far conoscere ai piloti la posizione degli altri aerei, come se diventassero note scritte in una specie di Internet aereo. Un altro aspetto della tecnologia che stiamo sviluppando riguarda un sistema d’informazione sulle condizioni atmosferiche, che include un display con mappe meteo mobili.

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