La stazione per treni e aerei che una delle voci più innovative del futurismo, Antonio Sant’Elia, aveva immaginato nel 1914. Questa l’immagine che, nel 1994, venne con una certa facilità associata al progetto con cui Santiago Calatrava apriva una vera e propria stagione nella concezione di infrastrutture pubbliche, e anche nella sua carriera. Alla stazione di Lyon-Satolas, oggi denominata Saint-Exupery, che connette le due frontiere dell’innovazione nei trasporti, cioè un aeroporto e la linea dei treni ad alta velocità, sarebbero seguiti molti progetti di grandi strutture per la collettività dalle forme di ispirazione organica, per la cultura come la Città della scienza di Valencia ma di nuovo e principalmente per i trasporti, come la stazione Mediopadana di Reggio Emilia e L’Oculus al World Trade Center di New York. L’inizio di questa storia, di una prima formulazione costruita di questo tipo di strutture dopo progetti di diversa scala evocazione, incluso un cabaret, veniva pubblicato su Domus nel settembre del 1994, sul numero 763.
Stazione per il Tgv Lyon-Satolas
Questa recentissima realizzazione dell’architetto-ingegnere spagnolo è una delle grandi architetture civili degli ultimi anni. È anche una magnifica sintesi del suo lavoro, che da sempre porta la struttura a livelli di virtuosismo lirico: le forme giurassiche di metallo che sfidano le leggi della statica vi convivono con i più pacati elementi di cemento armato.
È molto raro che una stazione ferroviaria si trovi in una condizione non urbana, in un luogo non costruito. Questa è una prerogativa di altri tipi di edifici pubblici come per esempio gli aeroporti. Il progetto della stazione Satolas nella campagna lionese, nell’ambito della politica francese dei trasporti veloci su rotaia con i Tgv, parte dunque da una condizione molto particolare, l’unica preesistenza essendo la struttura aeroportuale degli anni ’70 a cui doveva essere direttamente collegato.
Calatrava decide di non porre come prioritario il rapporto con l’aeroporto, assumendo allineamenti diversi e proponendo una struttura indipendente. Scegliendo di proporre una scomposizione funzionale in quattro elementi distinti, rafforza quel disordine e quella frammentazione che sono proprio la caratteristica negativa di tutti gli aeroporti oggetto di ampliamenti.
La nuova costruzione è architettonicamente e geometricamente autonoma anche perché la galleria che la collega all’aeroporto non risolve questo legame ma appare piuttosto come una parte aggiunta. Questa galleria sospesa (il primo dei quattro elementi che compongono il progetto) in lamiera e acciaio, con l’ambiguità tra la passerella e l’edificio, presenta una pesantezza strutturale (inusuale per Calatrava) di cui si libera solo nella parte che la collega al centro con la torre che porta ai posteggi. Irrisolto appare il suo punto più delicato: l’aggancio all’edificio dell’aeroporto.
La stazione possiede però ben altre e importanti qualità. Come grande esempio di architettura civile (ricorda le costruzioni del XX secolo) si pone tra quelle importanti opere pubbliche che fanno di un posto qualunque un luogo civico. Forse in tutta l’architettura di Calatrava c’è un intrinseco carattere pubblico, attraverso una nuova e personale concezione della monumentalità, che potrebbe, tramite una maggiore attenzione alla messa in opera del luogo, essere di grande attualità.
Oltre alla galleria, la stazione si compone di altri tre elementi, costruiti in tempi diversi, addirittura con committenti diversi. Il secondo elemento è l’edificio servizi, che è per certi versi l’articolazione pianivolumetrica del complesso. Completamente in cemento, con una facciata in acciaio e vetro verso l’aeroporto, esprime tutta la plasticità di questo materiale e la dinamicità delle forme proprie a Calatrava. Il movimento indotto è quello verticale, essendo tutto l’edificio organizzato intorno a una scala che collega il livello +1 (quello della galleria) al livello 0 (quello del terreno, dei posteggi e della hall). Qui trovano posto tutti i servizi della stazione come pure alcuni check-in per l’aeroporto. Due ampi balconi a sbalzo penetrano nello spazio della hall principale, che è il terzo elemento del progetto.
Di pianta triangolare, essa consiste di una grande struttura appoggiata su archi che toccano terra nei tre vertici del triangolo. La sua altezza, che raggiunge i 30 metri, la impone come segno a scala territoriale per chi arriva sia da terra sia dal cielo. Assume un ruolo assolutamente dominante anche rispetto alle strutture aeroportuali di cui è diventata, anche se solo simbolicamente, il portale d’ingresso. La sua architettura in acciaio e vetro – ricorda un enorme uccello ad ali spiegate – è il più maestoso esempio di quell’espressione giurassica che Calatrava ha più volte proposto ma raramente realizzato.
Questa monumentale, tuttavia leggera figura (che deriva da una complessa composizione volumetrica di diverse sezioni di cono) sormonta in parte la zona dei servizi e si appoggia letteralmente sulla lunga copertura dei binari con cui non esiste rapporto di continuità né spaziale né architettonica. Tipologicamente non è una anomalia; spesso le stazioni sia passanti che di testa possiedono questa separazione; la particolarità sta nel fatto che la hall sia posta al di sopra dei binari, visto che essi sono interrati.
La zona dei binari è a nostro avviso la più interessante e la più bella parte di tutto il progetto. Una bellezza inizialmente poco appariscente, nascosta alla vista dall’esterno sotto la copertura in lamiera (la stessa della galleria e della hall che però in questo caso risulta più estranea alla natura dell’edificio). Una bellezza che si intuisce attraverso i fianchi scoperti una volta vicino alla costruzione. Una bellezza infine che si scopre definitivamente sotto il tetto. Questa progressione è percettibile nelle strade di accesso e di uscita dall’aeroporto, le quali, con un'idea molto riuscita, passano sotto questa copertura, nobilitando un percorso solitamente anonimo e casuale.
La volta direzionata è ad archi incrociati i cui tamponamenti a forma romboidale, inizialmente previsti totalmente vetrati, per motivi economici sono stati in parte sostituiti da pannelli di cemento. L’idea spaziale è una sapiente mediazione tra un unico grande spazio e una sezione in ambienti differenziati (il passaggio, i binari di fermata, i binari di transito). Questa articolazione si avverte non tanto nella parte centrale, dove i binari di transito corrono, chiusi, sotto il passaggio che porta alla hall, ma nei due estremi dove la struttura si libera dai tamponamenti, anche per favorire l’effetto di decompressione causato dai treni che passano a 260 Km/h.
Sui marciapiedi dei binari è sorta una foresta di arredi (panchine, lampioni, segnali, ecc.) imposti dalla società che gestisce il Tgv, ma estranei al progetto e che meriterebbero atti di vandalismo da parte degli studenti di architettura. Questo arredo non ha comunque la forza di disturbare l’eleganza strutturale che esalta la plasticità del cemento armato in una maniera con cui Calatrava ci ricorda Pier Luigi Nervi. La comparazione delle loro opere, che presentano sia similitudini che differenze, permette qualche considerazione.
Per entrambi l’espressione plastica corrisponde all’idea architettonica da cui parte il progetto. C’è un approccio all’aspetto costruttivo che lo assimila a quello formale. Il sistema portante non è la struttura dell’edificio ma è l’edificio stesso. Dunque la struttura non è mai un fatto solo tecnico ma è squisitamente architettonico; la costruzione si origina da una concezione architettonica e non viceversa. In realtà il problema dell’immagine finale è molto sentito, sebbene in modo diverso, sia da Nervi che da Calatrava.
Anche se con un punto di partenza comune, quello dell’espressione dell’azione delle forze, le loro rappresentazioni finali sono differenti per il fatto che entra in gioco l’idea estetica. Lo stesso Nervi ha osservato come la concezione della struttura è un atto creativo che si basa solo in parte su dei dati scientifici: la cosiddetta “sensibilità statica” è in realtà sempre anche una “sensibilità estetica”. Esiste insomma una forte mediazione personale, soggettiva, di condizioni oggettive. Se quella di Nervi è una rappresentazione più rigorosa, quella di Calatrava è più eccentrica. Le leggi strutturali naturali, con la propria intrinseca armonia, come forze generatrici, non sono una garanzia di imparzialità.
Una differenza di base è comunque l’economia di mezzi (che in fondo è anche estetica) di Nervi in confronto alla complessità dell’architetto spagnolo. Un’altra differenza che riscontriamo nei loro lavori è la stabilità rassicurante delle strutture di Nervi contro l’equilibrio al limite dell’instabilità di quelle di Calatrava. Quest’ultimo sembra sempre raggiungere un preciso punto di equilibrio; l’unico in grado di garantire la costruzione. Non c’è margine. Questo equilibrio, che è proprio la sintesi di tutto il suo lavoro, è una vera e propria sfida, forse più visiva che tecnica. Non possiamo giudicare il vero grado di audacia costruttiva.
Un’ultima similitudine nei lavori di Nervi e di Calatrava è l’importanza che hanno dato all’esecuzione delle proprie opere. I metodi di realizzazione, cioè lo studio del processo costruttivo come anche il principio di posa degli elementi sono considerati una parte integrante del progetto. Comunque il risultato ha la capacità di non apparire tecnologico. Come l’architettura gotica ci ricorda, la tecnica si trasforma in espressione artistica.
La stazione di Satolas è paradigmatica anche per altri aspetti tipici del lavoro di Calatrava. Le due architetture dell’architetto catalano, quella dell’acciaio e quella del cemento, trovano in essa tutte le espressioni loro proprie, e in esse ritroviamo tutte quelle rappresentazioni organiche della forma tra artificiale e naturale. In realtà non si tratta, come hanno affermato alcuni, di diretti riferimenti al mondo animale o vegetale. Calatrava, più semplicemente, ha studiato la natura scomponendola nelle sue forze compositive e assimilandone le regole. Applicando un grado di astrazione molto basso le figure così ottenute permettono un’identificazione che stimola l’immaginazione a cercare corrispondenze. Queste figure non vogliono d’altra parte essere metafore (altrimenti l’astrazione sarebbe maggiore) ma immagini fine a sé stesse.
L’aspetto “naturale” è in realtà dovuto anche a una ragione più scientifica. L'analisi delle tensioni interne alla natura, e la loro messa in opera attraverso anche la decomposizione nelle ramificazioni strutturali, produce semplicemente forme che rispondono alle stesse regole costruttive. Le forze di compressione, trazione e tensione sono portate alla luce e rappresentate (o lasciate intuire) nella forma. La plasticità è data dalla fluidità delle forze interne. L’architettura di Calatrava è perciò chiara: chiarezza spesso confusa con una falsa semplicità. Altre immagini si spiegano invece come pura espressione estetica personale. Forme dai lineamenti animali, maschere inquietanti e totem ricorrono continuamente tra le forme più generalmente organiche.
Quella di Calatrava appare allora come un’architettura viva non solo per la sua dinamica. Calatrava, per certi versi, non è un vero architetto. È qualcosa di meno e soprattutto qualcosa di più. Qualcosa di meno in quanto non ne possiede la complessità di interessi. Qualcosa di più perché entra nell’anima del processo costruttivo e dunque creativo in modo più profondo di un architetto. Inoltre possiede un talento eccezionale che gli permette non solo di proporre in ogni progetto idee e innovazioni, ma anche di far sorgere il dubbio che a volte non siano le sue forme a seguire le forze, ma che abbia addirittura la capacità di piegare le forze alle sue forme.